Secondi passati immoti, di sogni popolando con ninfe allegri giochi, per breve sonno fui steso; ritegni non ebbi a dormire su freddi solchi che del luogo erano pavimento. Ma sollievo ad orrori sì biechi non v’è; svegliato con colpi cento di zampa rovescio, tale la forza da staccare teste, vidi distinto del fido compagno le zanne. Scorza dura la pelle, qual buccia di pesca protegge l’interno, dolore smorza per nulla, che la visione si offusca. Ripresa del viandante la forma migliore, sanato dai danni, losca camera osservo e desiderio d’arma volge al pensiero mio, che l’antro cupo paure antiche richiama; rafferma l’aria, sospiro non mette, lupo sembiante il fumo ci avvolge tetro, solo esso qui è presente, dirupo profondo d’un nulla evitammo, che entro la luce del cero l’orlo scorgemmo. Seguendo del gatto il passo scaltro, balzando tra crepe, gole passammo, brecce tra rocce contando, fumose forme e pennacchi di nebbia cogliemmo soltanto; memore d’incendi, cose di tempi ormai passati, l’acre odore che respiro toglie e lacrime ombrose fa versare all’animo mio, cuore ancora non regge tali ricordi, su tutto regnava. Quanto dolore costa questo andare per corsi lordi di fuliggine e braci ardenti? Quale prezzo sto pagando? Quali balordi motivi mi hanno spinto del male traversare l’orribile distesa? Sava, tua è la colpa e nulla sale ad onore per quel che vidi; pesa fardello quella spada, maledetta, si spezzi come spezzò dell’attesa la vita mia; mai scalare vetta senza conoscerne i perigli angusti, eppure a questa impresa, eri matta, mi lanciasti; qual curiosa, vesti spulciando, in bancarelle di mercanti Nalimensi, del viaggio molesti consiglieri, di sapere volenti, foste tu e quell’incantatore vero | che a filosofare tendeva. Menti fini tale cammino mai avrebbero proposto! Comunque al danno compiuto non v’è riparo, della stesa il mero fumo tutto copriva, senza aiuto alcuno procedemmo, ne i dannati disturbare si poteva; di muto lamento, i volti deformi privati di vista, percorsi da pinnacoli grigi che entro e fuori da stipati corpi corrono, respiri refoli solo permettono; qual infame prodezza compirono, che da proli perverse questa tortura di grame sementi soffrono? Vedere l’ombra d’uomo noto soffrire per lame di fosca natura il dubbio tra membra ghiacciate non solse. Nel vivere nostro, della Terribile le labbra veci per tempo fece, che collere a Nalim non diedero danno alcuno; ma, folle corsa, Alarico al potere tese le mani, non trovando pruno di frutti provvisto tra vecchie mura, Karmisia ai propri servigi tribuno si pose e mai a dolo fu posto cura. Pensiero non s’ebbe per la sua sorte, qual misero fato colse e perdura, quando del cuore giunse la morte; notare la sua figura tra queste distese, stupore pose tra aperte braccia, ma di colloquiare, triste, non fu concesso tempo; del custode il passo si fece cauto, viste tra i fumi di guardiani le code. Di esile corpo, le braccia possenti in artigli, lo sguardo corrode maligno del volere forza, denti aguzzi come lame completano il quadro; del pericolo tremanti, tra due file ci muovemmo, d’un vano la strada posero; non uno mosse verso di noi, ne grido volse, strano, quando alla porta giungemmo. Con rosse tende a decorare l’entrata, l’antro passammo guardinghi, nero trasse che solo il lume di visione metro fece. D’un tratto con sordo rumore le ante si chiusero, di travi destro, colsi coi lobi sinistro stridore. |
RACCONTI SCRITTI IN PUNTA DI DITA, SCORRENDO COME IL PAESAGGIO A BORDO DI UN TRENO
venerdì 23 ottobre 2009
Canto Quarto
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