giovedì 24 gennaio 2008

Australe

Gli occhiali da sole gli caddero di nuovo sul naso mentre i piedi affondavano nella sabbia calda di quella spiaggia; il sole era sorto già da qualche ora, scaldando l'aria di una giornata limpida e tersa, una veloce brezza scompigliava i lunghi capelli biondi e sollevava di tanto in tanto un foglio di giornale scappato a qualche bagnante: festa, un giorno di festa di cui avrebbe goduto fino in fondo, dato che l'Opera House osservava un giorno di chiusura e quindi non avrebbe dovuto presenziare all'ennesima sessione di prove del coro cui faceva parte. Strano, dato che sono proprio i giorni di festa quelli in cui il pubblico è più numeroso, strano che il grande teatro non abbia programmato uno spettacolo proprio quel giorno, così importante nel mondo, ma a lui andava bene così: da quando era arrivato non aveva avuto un attimo di riposo, e ora che poteva godere di un'intera giornata non si sarebbe fatto scappare l'occasione per un qualche scrupolo lavorativo; e poi il coro era soltanto una copertura.
Sono sempre stato un buon corista pensò, con un lieve sorriso che nasceva sul suo volto liscio e giovane, mentre la sua pelle accoglieva il calore della sabbia e del sole; trovare quell'occupazione gli aveva garantito un camuffamento perfetto, e la possibilità di entrare in città senza farsi notare troppo dal suo vero obbiettivo: quelli della Fondazione l'avevano avvisato che stava succedendo qualcosa di grosso e che era indispensabile che qualcuno andasse a controllare, qualcuno in grado di intervenire rapidamente. Aveva impiegato quattro giorni per scovarli, nei ritagli di tempo concessi dalle prove e dalle rappresentazioni del Falstaff, qualche scagnozzo ambizioso e con troppa smania di fare carriera nelle schiere, esseri abietti e senza scrupoli, ma senza il potere e le capacità per contrastarlo: sicuramente stavano lavorando per qualcuno di grosso, qualcuno costretto ad ingoiare una gran brutta sorpresa quando il loro fallimento sarà evidente, qualcuno che avrebbe sicuramente fatto un passo falso, e lui era lì, pronto, lo aspettava al varco. Ma non oggi. Diede un'occhiata fugace al suo portatile chiuso:
- No, fino a stasera non mi disturberanno - disse tra sé - almeno fino a quando non si alzeranno.
Le onde dell'oceano si riversavano sulla spiaggia bianca cantando un'eterna ninna nanna col loro sciabordio, e la mente piano piano si sciolse col passare delle ore. No, non avrebbe agito in quel giorno, troppo pericoloso, troppo santo per poter rischiare una venuta; nemmeno Lucien avrebbe tentato, lo sapeva, per quanto ancora gli sfuggisse il motivo di tanto interesse per quella terra in cui la nuova via era stata importata assieme ai galeotti, mentre di quella dei nativi ormai non vi è più traccia. Il pensiero del vecchio amico, del traditore, fu come aprire la cataratta di una diga che per troppo tempo ha trattenuto domande, riflessioni e sentimenti. Aveva nostalgia dei primi tempi, di quando cantava nel grande coro, lui uno dei tanti. Si trovò d'improvviso a chiedersi dov'erano i suoi compagni d'allora, dove si trovavano Michael e Gabriel, cosa stavano facendo in quel momento, se per caso erano anche loro raminghi, come lui. Si erano separati dopo la guerra, dopo la Caduta lui non era tornato nel coro, non era più lo stesso senza Lucien. Col tempo era venuto a conoscenza di molti destini e avvenimenti, sapeva che i suoi compagni, come lui tra i primi, erano tornati al loro posto, e avevano assistito alla nascita e allo sviluppo della nuova via, nuova via in cui non aveva collocazione, non aveva un posto.
Quando riaprì gli occhi il sole stava tramontando alle sue spalle, e la piccola spiaggia australiana si era ormai svuotata: Tutti a festeggiare il mio Signore pensò con una nota lieve; lentamente si alzò, lasciando la propria sagoma stampata sulla spiaggia, raccolse il suo zaino con dentro il portatile e qualche altra cosa. Aveva voglia di volare, di sentire il vento sferzargli il viso, di sgranchire le ali che non usava da fin troppo tempo:
- Nessuno si stupirà a veder volare un Angelo a Natale - disse a voce bassa, rivolto a se stesso.

giovedì 17 gennaio 2008

Il Volo dei Calabroni

L’eco degli ultimi applausi si stava spegnendo nella grande sala. Ormai era giunta alla fine di quello spettacolo, un ultimo pezzo, un’ultima variazione sul tema, forse la più difficile di tutto il concerto, non solo per come avevano deciso di eseguirla, né per la difficoltà del pezzo originale, ma soprattutto per il poco tempo avuto per preparare la sonata. Il teatro era colmo, i biglietti erano andati esauriti due giorni prima, ma sicuramente qualcuno era riuscito ad entrare di straforo, dato che nella platea e sulle balconate vi erano delle persone in piedi, fin dall’inizio, appoggiate alle pareti o alle colonne che avevano seguito la sua esibizione per oltre un’ora e mezza; era la prima volta che un pubblico così numeroso seguiva i suoi virtuosismi con l’archetto, ascoltando con attenzione i suoi maltrattamenti ai pezzi più famosi per violoncello.
Una voce nel pieno silenzio della sala annunciava l’ultima variazione, “Il volo dei Calabroni”. Il suo sguardo si mosse verso il suo compagno in quella sera così strana. Quanto tempo era passato? 3, forse 4 mesi, dal primo contatto, dalla prima chiacchierata fatta su una chat, le prime parole scambiate per caso, l’immediata sensazione di essere di fronte ad una persona affascinante, simpatica, piacevole, i giorni e le ore passate a scriversi e l’idea di questo concerto che piano piano si evolveva tra le parole scambiate; la scelta dei pezzi, il come variarli, i ritmi, l’ordine, il primo incontro per fare un punto, per riepilogare, per raccontarsi un po’, per provare gli spartiti che si era portato dietro in quel fine settimana, quanto tempo era passato, un mese, un mese e mezzo di prove, ore e ore passando assolate domeniche a suonare e chiacchierare, preparando un concerto immaginario che mai avrebbe pensato di portare al pubblico. Poi l’annuncio, tre settimane fa, al telefono:
- Suoniamo - le disse, nella sua voce c’era qualcosa di diverso dal solito.
- Beh, sì, domenica pomeriggio, dopo mangiato. –
- No, non hai capito, suoniamo, io e te. Abbiamo un concerto in cartellone all’Auditorium. –
- Non mi stai prendendo in giro? –
- No, è tutto vero. Non è grandioso? –
L’Auditorium era una delle più grandi sale per la musica classica in città, c’era stata diverse volte, sia da spettatrice che da musicista, per quanto il suo nome si perdeva nelle varie grandi orchestre in cui aveva prestato la sua arte; ottenere una serata in quel teatro era difficilissimo, le sembrava impossibile che due sconosciuti come loro potessero usufruire di un palcoscenico tanto rinomato.
- Dai, Stefan, smettila di scherzare. –
- Guarda che sono serio. È tutto vero, ho qui la lettera del direttore. Cos’è, pensavi che non avremmo mai suonato le nostre variazioni? –
. Ma non glielo disse. Nei giorni successivi alla telefonata la sensazione che fosse tutto un enorme scherzo le rimase a lungo, nonostante Stefan le fece vedere la lettera con la convocazione per dare vita a “Variazioni”, una serata sola, un’occasione unica, nonostante cominciarono a provare tutte le sere e per ben due volte occuparono il palco della grande sala inondandolo con le loro note; le domande si affollavano nella sua mente, come aveva fatto quell’ometto (basso, un po’ tracagnotto, dai capelli biondicci e gli occhi verdi, per nulla bello ma dal sorriso contagioso) ad ottenere un simile privilegio, aveva convinto qualcuno della direzione artistica, aveva degli amici, dei conoscenti, aveva corrotto qualcuno? Non lo sapeva e il suo compagno era stato piuttosto evasivo.
Il silenzio calato nel salone era quasi opprimente. L’attacco spettava a Stefan, un primo, breve volo, da una foglia ad un’altra, lei seguiva sullo stesso percorso qualche istante dopo che lui si fosse posato sulla nuova meta, ripartendo appena dopo essere stato raggiunto; due, tre brevi salti prima di partire assieme per un lungo, lunghissimo volo in costante accelerazione, con brevi impennate ora di uno, ora dell’altro, piccole sfide di bravura in un crescendo di note sparate ad un ritmo sempre più alto: sarebbe dovuto andare così, il piano era quello.
Ma Stefan non si era attenuto al piano, e dopo i primi salti eseguiti con un tempismo perfetto, scattò in anticipo, proprio quando il volo da solitario diveniva di coppia: sorpresa, trattenne un urlaccio, non era in prova, c’erano centinaia di persone ad osservarli e doveva decidere in un attimo cosa fare; partì in ritardo di un paio di secondi rispetto all’ormai inutile spartito che aveva di fronte, doveva raggiungerlo a tutti i costi cercando di non dare alcun segno di quello che era successo al pubblico. Pazzo, stupido incosciente, ma cosa gli aveva preso? Perché era partito in anticipo, aveva sbagliato a contare il tempo della pausa, aveva segnato male sullo spartito la battuta d’inizio, o si era semplicemente fatto prendere dall’entusiasmo? Rischiava di rovinare tutto con la sua irruenza e di trasformare quel bellissimo concerto in un disastro, per entrambi; non era ambiziosa, ma la possibilità di questo concerto, per lei, era fin troppo ghiotta, un’occasione unica per farsi conoscere e in quelle tre settimane aveva pensato spesso a come la sua carriera di concertista sarebbe potuta cambiare: per questo non si era tirata indietro, amava suonare, amava poterlo fare in compagnia, soprattutto se la compagnia era così simpatica e affabile, e poterci ricavare qualcosa di più che una bella esperienza non le sembrava affatto malvagio, e quello stupido poteva rovinare tutto con questo colpo di testa. Le note si rincorrevano per l’ampia platea che ospitava il pubblico in religioso silenzio, non aveva mai affrontato “Il Volo del Calabrone” a quella velocità, il respiro si stava facendo corto, affrettato e delle gocce di sudore le scendevano sulla schiena tesa nello sforzo di raggiungere il suo compagno che continuava a procedere nel suo percorso come se non fosse successo nulla, come se fosse tutto regolare; un orecchio impegnato a determinare dove si trovava Stefan nel tragitto, stava suonando senza seguire lo spartito, d’istinto, l’archetto volava sulle corde tese spinto in un turbine di movimenti, le dita sulla tastiera si muovevano come forsennati ballerini di una discoteca techno, senza accorgersene lo raggiunse e lo superò, ormai completamente coinvolta dal ritmo frenetico, incapace di rallentare, di frenare le note che correvano sempre più veloci. Ora era lei in fuga e il suo compagno fu costretto a correrle dietro, a darle la caccia con una cascata di note lanciate ad una velocità che sembrava inarrivabile. La musica correva in un turbine di suoni, la melodia quasi irriconoscibile, l’ometto in breve coprì il distacco preso e per qualche istante i due violoncellisti fusero le loro note in un’unica rapidissima esecuzione.
- STOOOOOOOOOOOOOOOOOOOP! – Stefan urlò d’improvviso.
La musica s’interruppe, un po’ perché quell’urlo profondo, quel comando così imperioso spezzò il flusso delle note, un po’ perché ormai il ritmo era insostenibile ed entrambi avevano la necessità di fermarsi per riprendersi dallo sforzo compiuto. Pazzo, completamente pazzo, pensò irata.
- Acqua? – le chiese, con un sorriso smagliante. Nonostante traboccasse di rabbia, nonostante volesse urlargli dietro per tutto il guaio che gli stava combinando, si limitò ad annuire leggermente con la testa, gli occhi carichi di risentimento; il pubblico era alquanto perplesso, stava vivendo una situazione particolarissima, ma nessuno osò interrompere il silenzio, nemmeno con un applauso.
Stefan versò acqua fino all’orlo in un bicchiere poggiato sul tavolino che li divideva, poggiò la bottiglia sul tavolino, lo ringraziò di cortesia e fece per prendere il bicchiere, ma il suo compagno, con nonchalance prese il bicchiere colmo e lo bevve avidamente sotto il suo sguardo impietrito; fu più la sua faccia, l’espressione sorpresa che le si dipinse in volto che il gesto di Stefan a far esplodere una roboante risata nella platea, seguita da un lungo applauso quando gli occhi del suo compagno si posarono sulla sua faccia spazientita, diventando d’improvviso tutto rosso in un’espressione di vergogna e imbarazzo. Posò in fretta il bicchiere vuoto e lo riempì di nuovo fin quasi all’orlo.
- No. Voglio un altro bicchiere. – Disse con voce ferma, dura come la pietra. Stefan prese un secondo bicchiere e lo riempì; appoggiò l’archetto sul tavolino e prese il suo bicchiere, lo bevve piano, con calma cercando di dissipare la tensione dei suoi nervi. I suoi occhi traboccavano d’ira, avrebbe voluto tirarglielo dietro quel bicchiere, prenderla in giro così, di fronte a tutta questa gente, fare il pagliaccio per il pubblico non era serio, sarebbe sì stato un concerto memorabile ma di certo non per le magistrali esecuzioni fin lì svolte. Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro mentre gli ultimi sorsi d’acqua scorsero giù nella gola.
- Riprendiamo? – le chiese gentilmente, una volta appoggiato il bicchiere sul tavolino. Annuì con un gesto calmo e si volse verso il tavolino allungando la mano verso l’archetto. Che non trovò. Si guardò intorno, cercando affannosamente intorno a sé, dietro la sedia, sul leggio, sotto il tavolino, nulla, non era più lì, no, impossibile, doveva essere lì intorno, non poteva essersi smaterializzato.
- Qualcosa non va? –

- Il mio archetto, non lo trovo – Rispose, mentre posava uno sguardo quasi disperato su di lui. Tra il pubblico qualcuno stava soffocando una risata; dalla giacca di Stefan c’era qualcosa di strano che spuntava fuori, qualcosa di malamente nascosto, qualcosa che assomigliava molto al suo archetto.
- Il mio archetto. – La sua voce si era fatta gelida, il suo volto una maschera di rabbia, l’ometto le restituì l’archetto abbassando lo sguardo, se avesse potuto l’avrebbe incendiato solo con lo sguardo che si era fatto carico d’odio, il pubblico esplose ancora in una fragorosa risata ed un lungo applauso.
Le note ripresero a scorrere per la platea e le balconate all’unisono, in un lungo volo eseguito con una maestria senza pari, la tensione, la rabbia, piano piano si spensero mentre il pezzo veniva portato alla sua conclusione, sull’ultima nota l’applauso si trasformò in un vero tributo, il pubblico in piedi batteva le mani senza sosta, 2, 3, 5 minuti di soli applausi. Un trionfo.



Pochi giorni dopo Agnese venne contattata da un impresario che le propose un lungo tour, qualche mese in giro con una piccola orchestra per i più grandi teatri d’Europa, un compenso da capogiro e la libera scelta su cosa suonare, almeno per quanto riguardava il suo spazio all’interno dei concerti. Non aveva più parlato con Stefan, dopo il concerto non lo aveva più cercato, e nelle rare volte che lo trovava on-line era sempre troppo indaffarata per dargli retta. Ripensandoci era stato un bel concerto, il direttore dell’Auditorium aveva fatto loro dei sinceri complimenti e aveva chiesto se era possibile ripetere la performance. Quel concerto rimase unico.

venerdì 11 gennaio 2008

Binario 5

Ore 7:59, sono 2 minuti che la metro è ferma a Gioia, le porte aperte ad aspettare i pendolari che s'affrettano sulle scale pensando di prendere all'ultimo un treno che non ha alcuna voglia di muoversi; e io sono in ritardo. Di nuovo. Cerco di rilassarmi riprendendo la lettura del giornale gratuito preso quando ho imboccato le scale per la banchina, ma il continuo cicalio di segnalazione delle porte scandisce il tempo come un sadico direttore d'orchestra; Perderò il treno, e dovrò prendere l'interregionale delle 8.15, sempre se questa carriola si muove, perché altrimenti posso anche tornarmene a casa penso tra me, mentre l'ansia comincia a salire facendomi sudare le mani.
Sembra essere passata un'infinità quando la metro riprende il suo cammino verso la mia destinazione, fermata Stazione Centrale; controllo l'orologio: ore 8:00, ho cinque minuti scarsi prima che l'intercity per Venezia parta, lasciandomi al bordo del marciapiede sul binario 5, se corro ce la posso fare. Mi sposto di fronte alla porta, la borsa da lavoro a tracolla, chiudendo le zip delle tasche della giacca a vento, mentre il treno comincia a rallentare per entrare nella stazione.
ore 8:01, come un levriero all'apertura del cancello scatto a tutta velocità per imboccare le scale mobili, mesi di quotidiani viaggi sul tragitto Famagosta-Centrale mi hanno insegnato qual è la porta giusta davanti cui appostarsi per poter guadagnare le scale d'uscita prima di tutti; nel fare le scale di corsa volto lo sguardo verso la scura linea dei tornelli:
- MERDA! -
5 metri prima dei tornelli d'uscita, una fila di controllori aspetta l'ondata umana di passeggeri, cercando con i loro occhi da aguzzini qualcuno da tormentare, non ho tempo di fermarmi per mostrare a loro il mio abbonamento; frugo freneticamente nella tasca interna della giacca, cercando con le dita la plastica del documento di viaggio, mentre corro a perdifiato incontro alla linea di avvoltoi.
- Biglietto perf...-
- Eccolo! - grido, mettendo davanti agli occhi di uno dei controllori il mio abbonamento, mentre lo sorpasso puntando deciso all'uscita; forse per la sorpresa, forse perché l'abbonamento è valido, l'aguzzino si lascia passare senza nemmeno fare una piega. Un doppio passo sulla pedana a molla e supero il tornello, aumentando l'andatura verso le scale.
Ore 8:02, sono appena uscito dalla stazione metropolitana e senza prendere fiato mi lancio verso la stazione Centrale; appena varcata l'entrata giro verso sinistra, per andare a prendere le scale mobili più vicine al binario; sono due giorni che quelle della biglietteria sono ferme per manutenzione, butto giusto uno sguardo per vedere se è cambiato qualcosa: no, le scale sono ancora bloccate. Il cuore mi batte all'impazzata, mentre il fiato comincia a mancarmi quando mi infilo sulla rampa mobile ed alzo lo sguardo sulla lunga salita che mi aspetta; e mi fermo. Una decina di gradini davanti a me c'è un carrello caricato oltre ogni limite di borse e valigie, un ostacolo che non posso scavalcare; non posso fare altro che lasciarmi trasportare in cima dalla scala mobile contando i secondi e pregando che il treno non parta in perfetto orario, ma dovrei avere tempo.
Ore 8:03, appena il carrello si leva dalla cima della rampa, scatto verso il binario 5, dove il treno per Venezia mi aspetta per accogliermi tra le sue poltrone, fino a portarmi a Brescia dove proseguirò la mia giornata di lavoro, attraverso la porta che immette ai binari, mi affretto verso il marciapiede e noto che dell'intercity non c'è nessuna traccia:
- Ma dove cazzo è? - mi domando perplesso, mentre nella mia mente si fa strada l'idea che la mia corsa sia stata inutile, che era meglio prendersi al volo un cappuccino ed andare verso l'interregionale; controllo di essere sul binario giusto, ricontrollo l'ora del mio orologio con gli orologi della stazione, ma questi si ostinano a segnare la stessa ora, riguardo di nuovo il binario, come se per magia il treno possa essere comparso lì, all'improvviso. Poi, folgorato da un'intuizione, guardo il tabellone delle partenze...
Eccolo lì, Binario 9! ho giusto un minuto per raggiungerlo. Mi rimetto a correre come se alle calcagna avessi dei mastini, destreggiandomi tra la fiumana di gente che si muove tra i binari, salendo, scendendo, attendendo un treno, giunto al binario 9 mi lancio verso la porta aperta dell'ultima carrozza mentre il controllore mi fa segno di muovermi, un balzo e sono nello stretto corridoio a bordo del treno.
Ore 8:05. - Martìn! pensavamo di non vederti stamattina, dovresti smetterla di arrivare sempre all'ultimo. -
- Ha ragione, dottore, mi sveglio sempre troppo tardi. - Gli rispondo, finalmente seduto nel posto che i miei compagni di viaggio mi hanno tenuto.
- Prima o poi perderai il treno, se continui così. -
- Finora non è successo; e poi non farò avanti-indietro ancora per molto. Toh, ci stiamo muovendo. -

martedì 8 gennaio 2008

Introduzione

Primo post: come al solito tante idee e nessuna che veramente ti convinca. D'altra parte l'inizio è sempre complicato, anche perché spesso dall'inizio dipende tutto; se è troppo moscio il lettore si stufa subito e poi non va avanti, se al contrario è troppo forte, il rischio è di deluderlo al secondo o al terzo capitolo, bisogna essere in grado di creare quel minimo di curiosità senza però impressionare subito. Però questa è un'introduzione a quello che (spero) diventerà l'archivio dei miei lavori da scrittore, racconti brevi, a volte brevissimi, forse qualche poesia, forse addirittura dei racconti a puntate (come si faceva sulle riviste dei primi anni del '900), le idee non mancano, un po' di materiale sparso qua e là nemmeno, si tratta soltanto di avere la costanza di mantenere aggiornato questo diario, costanza che spesso dimostro di non avere con Parole Fantasma (che abbandono per settimane, a volte mesi, per poi riprenderlo daccapo), costanza che non ho dimostrato nemmeno con questo progetto: non è la prima volta che apro un blog con lo scopo di raccogliere il vecchio e scrivere di nuovo, proposito sempre naufragato grazie ai miei difetti.

Ma io diabolicamente persevero, convinto che stavolta andrà diversamente, che sarò bravo e non lascerò disabitato questo diario.

Buona Lettura
Glaucosimone