Lume non persi, ne steso rimasi molto, che salvo per quelle pianure non ero. Dall’arco passati rasi dell’arma persi il contatto, di mure colsi l’eterno stare tra immobili spazi; come del cantore letture, d’amori e imprese si cercano i fili, col lume ad unica fonte del gatto traccia non rinvenni, segni flebili della sua presenza scomparsi. Patto fu sciolto? Nella battaglia ai demoni non sopravvisse? Qual sorte tratto teneva ora l’animo mio, grifoni volteggiavano per volte di lame decorate, tintinnare pavoni con piume di cristallo, infame incubo, sentii attorno. Attesa non feci, ne indietro tornai per trame svelare degli ultimi dubbi, pesa il cuore abbandonare compagno, rapido mi volsi della distesa ad osservare l’aspetto maligno. In fronte stava foresta di pali composta, catene a far del legno rami e foglie, brezza leggera strali muoveva di malinconie amare, gioie perdute, di piccoli mali i dolori mostrava a perorare cause d’innocenza. Passi mossi svelto e per sentiero stretto andare presi con miraggio d’uscita; assi non notai, per il peso mio cedenti in profonda fossa caddi, riflessi non furono, per evitare, pronti, della trappola l’inganno. Da rete fui avvolto, come sarda da pescante naviglio intrappolato, tra discrete file di folli figure fui alzato e ad alto palo legato. Facete risa di giubilo i demoni fiato diedero, occhi luccicanti, labbra torte in malvagi ghigni, perlato stridore di unghie e corna su scabra colonna del loro terribile antro la punizione conobbi. Tenebra giunse e di paure, disprezzi, d’atro rimorso mi colmarono; lacrime, ancora una volta, corsero, latro, tra solchi già noti, per infime, bugiarde passioni che per piacere | dei guardiani provavo prime. Del supplizio vittima rimanere non era destino, dell’aguzzino la mole possente vidi cadere; tripudio di gioia si spanse fino a spaventare dei demoni menti, con risa accolsi del grigio felino l’attacco, le zanne nel collo entranti in breve l’essenza del servo oscuro strappò. Con rapidi colpi furenti del corpo fece brandelli, del muro di pianto briciole attorno sparse, come di Theratos, fulmine puro, la forza colpisse; con furia d’orse gravide dieci, del palo i ferri spezzò ratto, libero fui, e corse tra piloni di anime perse, verri evitando. Pena di natura aspra, quante volte siamo noi stessi, serri nella cerca del meglio nostro sopra ogni cosa, ad infliggere pene e dolori di tal guisa? Tempra d’acciaio non tutti forgiano bene, in schegge si spezza, colpi mancini tra pieghe metalliche astio ottiene, a soffrire per crudeltà, inclini a lasciare col destino la lotta, e per nostre scelte di manichini prendere forma e sentire. Retta ragione a guida va posta, moti d’animo a costante controllo metta chi dai sentimenti doli vuoti non vuole provare nella vita. Altri ostacoli nel correre noti non si fecero, tra i pali, trita sofferenza esposta, nulla si pose ad avversare il nostro ire; gradita sorpresa non fu trovare, tra rose rosso sangue e bianco neve, rovi difesa, dell’inferno le penose arcate. Varcare senza nuovi tagli possibile non era; tempo non avevamo, paura di covi nascosti ed altra trappola nel campo tenevo. Ma a soluzione diversa non giungemmo e l’irta strada, che lampo sembrava, di spine, coperta morsa, affrontammo; punture da piante molte subimmo, ma tenace corsa tenemmo, fino della meta fronte. |
RACCONTI SCRITTI IN PUNTA DI DITA, SCORRENDO COME IL PAESAGGIO A BORDO DI UN TRENO
martedì 2 marzo 2010
Canto Settimo
mercoledì 17 febbraio 2010
Memorie di un Tempo
Era stata una giornata lunga, calda, col sole alto e il cielo limpido senza nemmeno l'ombra di una nuvola a macchiare il suo azzurro intenso, avevano girato su una delle jeep in compagnia degli altri turisti, fotografando elefanti, giraffe, antilopi, un solitario leopardo in cima ad un baobab, godendosi il panorama offerto da quello scorcio di savana. Ora la luce cremisi del tramonto inondava l'erba alta e i radi alberi che si stagliavano lungo tutto l'orizzonte, mentre Francesca osservava il lento calare del disco rosso; stava sorseggiando un cuba libre annegato nel ghiaccio, appoggiata allo stipite della porta-finestra nel bar dell'albergo, gli occhi fissi sulla distesa verde infinita; per quel giorno non l'aveva visto, non aveva trovato un solo cenno della sua presenza, e nemmeno degli altri: aveva tempo, era soltanto al primo giorno, però aveva sperato in po' di fortuna, visto che la dea bendata l'aveva già assistita facendole incontrare Tre Zanne. Agitò il bicchiere per far muovere i cubetti di ghiaccio in un lento walzer tra i bordi di vetro.
Fame. Aveva fame. Erano giorni che non metteva in bocca qualcosa di buono ed energetico, aveva perso il conto delle notti passate con lo stomaco gorgogliante e stretto, quasi dolorante... e aveva sete, ma per fortuna c'era una fonte d'acqua non troppo lontano da lì, avrebbe soddisfatto la sua gola riarsa a breve, sempre che le energie per muoversi non l'avessero abbandonata all'improvviso; si sentiva debole, ogni passo era uno sforzo di volontà, una tortura per il suo corpo stremato. Quanti giorni erano passati dal suo rapimento? due, forse tre mesi, quando quei banditi assaltarono il loro convoglio e li portarono via; nulla di personale, nessuna guerra terroristica o religiosa, soltanto dei delinquenti che speravano di ottenere qualche migliaio di dollari, dopo i primi momenti di tensione si erano comportati con cortesia e non l'avevano mai maltrattata, chiacchierava con i suoi carcerieri, alcuni solo degli adolescenti armati di Kalashnikov, dell'Italia, dell'Europa e del suo lavoro: non si era ribellata, ne aveva mai tentato di fuggire, erano i modi migliori per meritarsi una raffica di pallottole nella schiena. Tre settimane dopo il suo rapimento, Chinedu corse da lei con gli occhi pieni di terrore, le diede in mano un machete, una piccola sacca di tela e la spinse fuori dal nascondiglio urlandole di scappare, di andare il più lontano possibile; gli spari inondavano l'aria e sovrastavano qualsiasi rumore la foresta potesse produrre: in seguito scoprì che la sua libertà era merito di uno scontro fra bande.
Aveva vagato per la foresta pluviale per giorni, sfruttando i pochi viveri trovati nella sacca, facendosi strada col machete e preservando un pacchetto di fiammiferi; ogni giorno cercava di orientarsi in quell'intrico selvaggio, ma non aveva idea di dove andare; dei tre corsi di sopravvivenza che aveva seguito con il suo ex si ricordava ben poco e in ogni istante cercava nella sua testa le nozioni per rimanere viva in quell'ambiente ostile. Aveva trovato frutta e mangiato funghi, era stata costretta a difendersi più di una volta, infine era giunta al limitare della foresta, ed era uscita, una notte, per percorrere la savana. Si era costruita una fionda, con due strisce di cotone della sua camicia, l'aveva usata per cacciare mancando spesso il bersaglio, lei che era contraria a qualsiasi forma di violenza sugli animali, si era costruita una rudimentale lancia, un palo di legno rozzamente appuntito a colpi di machete, in qualche modo era riuscita a prendere una specie di lepre... molti giorni fa, era riuscita a difendere la sua preda dagli avvoltoi, a cucinarne un po' al riparo, prima di dover abbandonare il resto agli sciacalli.
- A cosa stai pensando, Franci? - La voce di Luisa la scosse dai suoi ricordi. - Tutto bene? -
- Sì, tutto bene - disse Francesca - stavo solo ricordando. -
- È qui che ti hanno trovato anni fa, giusto? Immagino sia stato terribile per te, persa in questa vastità -
Francesca sorrise, e tornò ad ammirare l'ultimo spicchio di sole prima che scomparisse dietro l'orizzonte.
Fame. Aveva fame. Erano giorni che non metteva in bocca qualcosa di buono ed energetico, aveva perso il conto delle notti passate con lo stomaco gorgogliante e stretto, quasi dolorante... e aveva sete, ma per fortuna c'era una fonte d'acqua non troppo lontano da lì, avrebbe soddisfatto la sua gola riarsa a breve, sempre che le energie per muoversi non l'avessero abbandonata all'improvviso; si sentiva debole, ogni passo era uno sforzo di volontà, una tortura per il suo corpo stremato. Quanti giorni erano passati dal suo rapimento? due, forse tre mesi, quando quei banditi assaltarono il loro convoglio e li portarono via; nulla di personale, nessuna guerra terroristica o religiosa, soltanto dei delinquenti che speravano di ottenere qualche migliaio di dollari, dopo i primi momenti di tensione si erano comportati con cortesia e non l'avevano mai maltrattata, chiacchierava con i suoi carcerieri, alcuni solo degli adolescenti armati di Kalashnikov, dell'Italia, dell'Europa e del suo lavoro: non si era ribellata, ne aveva mai tentato di fuggire, erano i modi migliori per meritarsi una raffica di pallottole nella schiena. Tre settimane dopo il suo rapimento, Chinedu corse da lei con gli occhi pieni di terrore, le diede in mano un machete, una piccola sacca di tela e la spinse fuori dal nascondiglio urlandole di scappare, di andare il più lontano possibile; gli spari inondavano l'aria e sovrastavano qualsiasi rumore la foresta potesse produrre: in seguito scoprì che la sua libertà era merito di uno scontro fra bande.
Aveva vagato per la foresta pluviale per giorni, sfruttando i pochi viveri trovati nella sacca, facendosi strada col machete e preservando un pacchetto di fiammiferi; ogni giorno cercava di orientarsi in quell'intrico selvaggio, ma non aveva idea di dove andare; dei tre corsi di sopravvivenza che aveva seguito con il suo ex si ricordava ben poco e in ogni istante cercava nella sua testa le nozioni per rimanere viva in quell'ambiente ostile. Aveva trovato frutta e mangiato funghi, era stata costretta a difendersi più di una volta, infine era giunta al limitare della foresta, ed era uscita, una notte, per percorrere la savana. Si era costruita una fionda, con due strisce di cotone della sua camicia, l'aveva usata per cacciare mancando spesso il bersaglio, lei che era contraria a qualsiasi forma di violenza sugli animali, si era costruita una rudimentale lancia, un palo di legno rozzamente appuntito a colpi di machete, in qualche modo era riuscita a prendere una specie di lepre... molti giorni fa, era riuscita a difendere la sua preda dagli avvoltoi, a cucinarne un po' al riparo, prima di dover abbandonare il resto agli sciacalli.
- A cosa stai pensando, Franci? - La voce di Luisa la scosse dai suoi ricordi. - Tutto bene? -
- Sì, tutto bene - disse Francesca - stavo solo ricordando. -
- È qui che ti hanno trovato anni fa, giusto? Immagino sia stato terribile per te, persa in questa vastità -
Francesca sorrise, e tornò ad ammirare l'ultimo spicchio di sole prima che scomparisse dietro l'orizzonte.
domenica 10 gennaio 2010
Canto Sesto
Breve fu del pendio l’ascesa dolce, che mirare della cava scenario prese tempo e stupore; quale pulce che da schiena osserva di grimorio gli scritti arcani, così, con pupilla fissa, meraviglia appresi d’avorio, di perle e di quarzo l’arte più bella. Ma il cammino nostro per queste sale proseguire non era volto; molla scattante, il custode per portale d’alabastro e d’argenti rilucenti intraprese nuovo ire: ferale fu lo spettacolo di marcescenti paludi ricolme di pece, vasche di ceneri nere, d’incandescenti ferri per strazi, che memorie fosche di buie segrete grevi affiorano. Per quale opera di Lubas le ricche volte che questa gora anticipano furono costruite? Quale inganno viene intrapreso? Nessuna mano disturbare può il fato con senno, ne concessa scelta alle anime morte dagli dei. Eppure come sordo inno di chiacchiere scorre tra le porte, così tale splendore gloria acclama, dell’ultima battaglia piega sorte. Condotto ratto per stretta via grama tra le pozze ribollenti, macchine di sofferenza e di dolore trama, vidi a moltitudine mille, fine supplizio e rude violenza sortite, come del mattino le fredde brine, che a compassione per l’anime trite muove il cuore. Nell’ascoltare dei dannati strepiti e pervertite risa di demoni folli, urlare colsi d’umana voce del mio nome il suono; mi volsi per scovare la fonte di tale trambusto, come mi apparve ancora rimembro con orrore! Steso su tavolaccio lordo, some infernali trazione a percussore imprimono, aprire con pesante colpo mobili assi per guide more scivolano ad arti strappare, lente, dal corpo, di Jakal von Shar osservai lo strazio; con passo svelto l’aitante condottiero, con sforzo nullo, levai da quella tortura abominevole. | Non fu complesso, la macchina privai di moto; dei demoni benevole fuga fui causa io? Del mio compagno la fama fin qui era giunta? Per mole non atto allo scontro frontale, regno fece suo dell’infiltrare, sortire e sabotare; maestro di spada degno di nobili corti, fece perire molti tra i ribelli, per loro mano di questo inferno gramo prese l’ire. Sospiro trasse l’anima, malsano occhio a me volse e parole cariche di speranza sciolse: “Vivi vagano, ormai, per mondi non loro? Pudiche menti i cieli raggiungono in membra del piano terreno?” Parole parche usai per rispondere ai dubbi che ombra si posero al comprendere del fato lo strano corso: “Come faro libra luce a guidare navigli per lato di costa aspro, così la tua presenza risplende per queste gore; malato pensiero, follia ti guida, gonza voglia di sapere fin qui t’ha posto; per stima del patto che, con costanza, ci lega, odi d’un misero, pesto, lacero dannato verbo ed appello. Dei prossimi inferni, sapere mesto che poco m’allevia, questo fardello poco pesa, che a soffrire le carni sole: avanti dell’anima fallo, dei tuoi prossimi i dolori, perni a tortura volti si trasformano; della dissoluzione e di moderni piaceri la tomba proverai. Brano ancora manca al mio canto maligno, ma lume mi manca, Nuvak legano con benda nera, l’oscuro disegno non mostrano a chi cerca. Per l’anima mia l’Esarca preghi.” Altro, ritegno ebbi, non chiesi, goccia di stima discese per il Capitano, strada ripresi, tra ruote e lame, prima minaccia, passai indenne; presa spada, non so da quale fodero estratta, per affrontare demoni che rada l’accesso bloccarono fermi. Matta sapienza, che mai troverò? Preso non venni da braccia, coda trafitta in nera arcata mi lanciò disteso. |
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