martedì 2 marzo 2010

Canto Settimo

Lume non persi, ne steso rimasi
molto, che salvo per quelle pianure

non ero. Dall’arco passati rasi
dell’arma persi il contatto, di mure
colsi l’eterno stare tra immobili
spazi; come del cantore letture,
d’amori e imprese si cercano i fili,
col lume ad unica fonte del gatto
traccia non rinvenni, segni flebili
della sua presenza scomparsi. Patto
fu sciolto? Nella battaglia ai demoni
non sopravvisse? Qual sorte tratto
teneva ora l’animo mio, grifoni
volteggiavano per volte di lame
decorate, tintinnare pavoni
con piume di cristallo, infame
incubo, sentii attorno. Attesa
non feci, ne indietro tornai per trame
svelare degli ultimi dubbi, pesa
il cuore abbandonare compagno,
rapido mi volsi della distesa
ad osservare l’aspetto maligno.
In fronte stava foresta di pali
composta, catene a far del legno
rami e foglie, brezza leggera strali
muoveva di malinconie amare,
gioie perdute, di piccoli mali
i dolori mostrava a perorare
cause d’innocenza. Passi mossi
svelto e per sentiero stretto andare
presi con miraggio d’uscita; assi
non notai, per il peso mio cedenti
in profonda fossa caddi, riflessi
non furono, per evitare, pronti,
della trappola l’inganno. Da rete
fui avvolto, come sarda da pescante
naviglio intrappolato, tra discrete
file di folli figure fui alzato
e ad alto palo legato. Facete
risa di giubilo i demoni fiato
diedero, occhi luccicanti, labbra
torte in malvagi ghigni, perlato
stridore di unghie e corna su scabra
colonna del loro terribile antro
la punizione conobbi. Tenebra
giunse e di paure, disprezzi, d’atro
rimorso mi colmarono; lacrime,
ancora una volta, corsero, latro,
tra solchi già noti, per infime,
bugiarde passioni che per piacere
dei guardiani provavo prime.
Del supplizio vittima rimanere
non era destino, dell’aguzzino
la mole possente vidi cadere;
tripudio di gioia si spanse fino
a spaventare dei demoni menti,
con risa accolsi del grigio felino
l’attacco, le zanne nel collo entranti
in breve l’essenza del servo oscuro
strappò. Con rapidi colpi furenti
del corpo fece brandelli, del muro
di pianto briciole attorno sparse,
come di Theratos, fulmine puro,
la forza colpisse; con furia d’orse
gravide dieci, del palo i ferri
spezzò ratto, libero fui, e corse
tra piloni di anime perse, verri
evitando. Pena di natura aspra,
quante volte siamo noi stessi, serri
nella cerca del meglio nostro sopra
ogni cosa, ad infliggere pene
e dolori di tal guisa? Tempra
d’acciaio non tutti forgiano bene,
in schegge si spezza, colpi mancini
tra pieghe metalliche astio ottiene,
a soffrire per crudeltà, inclini
a lasciare col destino la lotta,
e per nostre scelte di manichini
prendere forma e sentire. Retta
ragione a guida va posta, moti
d’animo a costante controllo metta
chi dai sentimenti doli vuoti
non vuole provare nella vita.
Altri ostacoli nel correre noti
non si fecero, tra i pali, trita
sofferenza esposta, nulla si pose
ad avversare il nostro ire; gradita
sorpresa non fu trovare, tra rose
rosso sangue e bianco neve, rovi
difesa, dell’inferno le penose
arcate. Varcare senza nuovi
tagli possibile non era; tempo
non avevamo, paura di covi
nascosti ed altra trappola nel campo
tenevo. Ma a soluzione diversa
non giungemmo e l’irta strada, che lampo
sembrava, di spine, coperta morsa,
affrontammo; punture da piante
molte subimmo, ma tenace corsa
tenemmo, fino della meta fronte.

mercoledì 17 febbraio 2010

Memorie di un Tempo

Era stata una giornata lunga, calda, col sole alto e il cielo limpido senza nemmeno l'ombra di una nuvola a macchiare il suo azzurro intenso, avevano girato su una delle jeep in compagnia degli altri turisti, fotografando elefanti, giraffe, antilopi, un solitario leopardo in cima ad un baobab, godendosi il panorama offerto da quello scorcio di savana. Ora la luce cremisi del tramonto inondava l'erba alta e i radi alberi che si stagliavano lungo tutto l'orizzonte, mentre Francesca osservava il lento calare del disco rosso; stava sorseggiando un cuba libre annegato nel ghiaccio, appoggiata allo stipite della porta-finestra nel bar dell'albergo, gli occhi fissi sulla distesa verde infinita; per quel giorno non l'aveva visto, non aveva trovato un solo cenno della sua presenza, e nemmeno degli altri: aveva tempo, era soltanto al primo giorno, però aveva sperato in po' di fortuna, visto che la dea bendata l'aveva già assistita facendole incontrare Tre Zanne. Agitò il bicchiere per far muovere i cubetti di ghiaccio in un lento walzer tra i bordi di vetro.

Fame. Aveva fame. Erano giorni che non metteva in bocca qualcosa di buono ed energetico, aveva perso il conto delle notti passate con lo stomaco gorgogliante e stretto, quasi dolorante... e aveva sete, ma per fortuna c'era una fonte d'acqua non troppo lontano da lì, avrebbe soddisfatto la sua gola riarsa a breve, sempre che le energie per muoversi non l'avessero abbandonata all'improvviso; si sentiva debole, ogni passo era uno sforzo di volontà, una tortura per il suo corpo stremato. Quanti giorni erano passati dal suo rapimento? due, forse tre mesi, quando quei banditi assaltarono il loro convoglio e li portarono via; nulla di personale, nessuna guerra terroristica o religiosa, soltanto dei delinquenti che speravano di ottenere qualche migliaio di dollari, dopo i primi momenti di tensione si erano comportati con cortesia e non l'avevano mai maltrattata, chiacchierava con i suoi carcerieri, alcuni solo degli adolescenti armati di Kalashnikov, dell'Italia, dell'Europa e del suo lavoro: non si era ribellata, ne aveva mai tentato di fuggire, erano i modi migliori per meritarsi una raffica di pallottole nella schiena. Tre settimane dopo il suo rapimento, Chinedu corse da lei con gli occhi pieni di terrore, le diede in mano un machete, una piccola sacca di tela e la spinse fuori dal nascondiglio urlandole di scappare, di andare il più lontano possibile; gli spari inondavano l'aria e sovrastavano qualsiasi rumore la foresta potesse produrre: in seguito scoprì che la sua libertà era merito di uno scontro fra bande.

Aveva vagato per la foresta pluviale per giorni, sfruttando i pochi viveri trovati nella sacca, facendosi strada col machete e preservando un pacchetto di fiammiferi; ogni giorno cercava di orientarsi in quell'intrico selvaggio, ma non aveva idea di dove andare; dei tre corsi di sopravvivenza che aveva seguito con il suo ex si ricordava ben poco e in ogni istante cercava nella sua testa le nozioni per rimanere viva in quell'ambiente ostile. Aveva trovato frutta e mangiato funghi, era stata costretta a difendersi più di una volta, infine era giunta al limitare della foresta, ed era uscita, una notte, per percorrere la savana. Si era costruita una fionda, con due strisce di cotone della sua camicia, l'aveva usata per cacciare mancando spesso il bersaglio, lei che era contraria a qualsiasi forma di violenza sugli animali, si era costruita una rudimentale lancia, un palo di legno rozzamente appuntito a colpi di machete, in qualche modo era riuscita a prendere una specie di lepre... molti giorni fa, era riuscita a difendere la sua preda dagli avvoltoi, a cucinarne un po' al riparo, prima di dover abbandonare il resto agli sciacalli.

- A cosa stai pensando, Franci? - La voce di Luisa la scosse dai suoi ricordi. - Tutto bene? -
- Sì, tutto bene - disse Francesca - stavo solo ricordando. -
- È qui che ti hanno trovato anni fa, giusto? Immagino sia stato terribile per te, persa in questa vastità -
Francesca sorrise, e tornò ad ammirare l'ultimo spicchio di sole prima che scomparisse dietro l'orizzonte.

domenica 10 gennaio 2010

Canto Sesto

Breve fu del pendio l’ascesa dolce,
che mirare della cava scenario

prese tempo e stupore; quale pulce
che da schiena osserva di grimorio
gli scritti arcani, così, con pupilla
fissa, meraviglia appresi d’avorio,
di perle e di quarzo l’arte più bella.
Ma il cammino nostro per queste sale
proseguire non era volto; molla
scattante, il custode per portale
d’alabastro e d’argenti rilucenti

intraprese nuovo ire: ferale

fu lo spettacolo di marcescenti

paludi ricolme di pece, vasche
di ceneri nere, d’incandescenti
ferri per strazi, che memorie fosche
di buie segrete grevi affiorano.
Per quale opera di Lubas le ricche
volte che questa gora anticipano

furono costruite? Quale inganno
viene intrapreso? Nessuna mano

disturbare può il fato con senno,
ne concessa scelta alle anime morte
dagli dei. Eppure come sordo inno
di chiacchiere scorre tra le porte,
così tale splendore gloria acclama,

dell’ultima battaglia piega sorte.
Condotto ratto per stretta via grama
tra le pozze ribollenti, macchine

di sofferenza e di dolore trama,

vidi a moltitudine mille, fine
supplizio e rude violenza sortite,

come del mattino le fredde brine,
che a compassione per l’anime trite
muove il cuore. Nell’ascoltare
dei dannati strepiti e pervertite
risa di demoni folli, urlare

colsi d’umana voce del mio nome
il suono; mi volsi per scovare
la fonte di tale trambusto, come
mi apparve ancora rimembro con orrore!
Steso su tavolaccio lordo, some
infernali trazione a percussore

imprimono, aprire con pesante
colpo mobili assi per guide more
scivolano ad arti strappare, lente,
dal corpo, di Jakal von Shar osservai
lo strazio; con passo svelto l’aitante
condottiero, con sforzo nullo, levai

da quella tortura abominevole.
Non fu complesso, la macchina privai
di moto; dei demoni benevole

fuga fui causa io? Del mio compagno

la fama fin qui era giunta? Per mole
non atto allo scontro frontale, regno

fece suo dell’infiltrare, sortire
e sabotare; maestro di spada degno
di nobili corti, fece perire
molti tra i ribelli, per loro mano
di questo inferno gramo prese l’ire.
Sospiro trasse l’anima, malsano
occhio a me volse e parole cariche
di speranza sciolse: “Vivi vagano,

ormai, per mondi non loro? Pudiche
menti i cieli raggiungono in membra
del piano terreno?” Parole parche
usai per rispondere ai dubbi che ombra

si posero al comprendere del fato

lo strano corso: “Come faro libra
luce a guidare navigli per lato
di costa aspro, così la tua presenza
risplende per queste gore; malato
pensiero, follia ti guida, gonza
voglia di sapere fin qui t’ha posto;
per stima del patto che, con costanza,
ci lega, odi d’un misero, pesto,
lacero dannato verbo ed appello.
Dei prossimi inferni, sapere mesto

che poco m’allevia, questo fardello
poco pesa, che a soffrire le carni
sole: avanti dell’anima fallo,
dei tuoi prossimi i dolori, perni

a tortura volti si trasformano;
della dissoluzione e di moderni
piaceri la tomba proverai. Brano
ancora manca al mio canto maligno,
ma lume mi manca, Nuvak legano

con benda nera, l’oscuro disegno

non mostrano a chi cerca. Per l’anima
mia l’Esarca preghi.” Altro, ritegno
ebbi, non chiesi, goccia di stima
discese per il Capitano, strada
ripresi, tra ruote e lame, prima
minaccia, passai indenne; presa spada,
non so da quale fodero estratta,
per affrontare demoni che rada

l’accesso bloccarono fermi. Matta
sapienza, che mai troverò? Preso
non venni da braccia, coda trafitta

in nera arcata mi lanciò disteso.