Passata la porta mi trovai, d’un tratto,
in un’ampia caverna scura, che il lume ben poco illuminava; per ogni anfratto un’ombra rifletteva, come barlume di paura. Fissai, chiusa la porta, la mia guida che dell’antro le brume, con occhi curiosi, esplorava accorta. Quale posto era quello? Di che inferno era parte quell’ampia grotta torta ed inquietante? Forse qui attorno passavano le anime condannate? Questi quesiti tuttora discerno tra ricordi e vaghe immagini nate allora che la mia mente mantiene; ma al tempo, tra scure nebbie portate nella notte, m’accorsi da orme piene che del gatto le tracce persi. Ratto seguii delle zampe il corso, pene soffrendo per il terrore che sotto a quella volta il cuore t’attanaglia; giunsi greve fino un passaggio rotto nella roccia come piccola faglia. Entro un corridoio angusto il custode attendeva l’animo mio alla soglia; come scavato da talpa che rode di verdure le radici sembrava, talmente stretto che l’avanzare ode non merita, che pure strisciava la guida. Percorso il lungo budello di rocce e massi composto, brillava l’uscio di una fosca luce, tranello temendo la testa sporsi cauto e nebbia marina m’avvolse il collo. La vista della cala rese muto dei lamenti per il tragitto l’animo mio; bianca spiaggia, di flauto le melodie tra le rocce, limo sugli scogli affioranti, splendente tutto colse. Il felino, d’attimo correndo, balzò su una galleggiante barca posta a riva, pronta a salpare, e fissò me con occhio bruciante; altra via non v’era per cui trovare la cava ove Rhas regnava? Non feci in tempo la domanda a formulare, onde enormi travolsero, dispreci pietà, la rada frangendo forti inondavano, e di pinne veci i miei arti fecero; per sorti fauste giunsi al naviglio leggero | che lentamente verso mari aperti
procedeva. Issata sull’albero la vela, dal vento sospinti traccia non v’era più della cala; invero sol acqua si nota, tra i flutti breccia non fanno scogli, ne alghe, ne d’isole all’orizzonte si staglia la roccia; sol onde si perdono in lente fole fin dove l’occhio vede: caddero gocce su vesti già zuppe e mole felina, che sulla prua fiero era posto, da cieli gravidi d’acqua e saette lucenti nel nero. Ore passarono in cerca di lidi nuovi cui approdare, finché un guizzo notai tra i flutti; d’umano vidi una figura con furioso spruzzo nuotare ratto verso il legno nostro, ma preso venne da essere, nel mezzo dell’impresa, di orrida specie, mostro sembiante con coda di pesce, squame coperto, viso deforme, indietro spingeva il dannato; sottili lame ferirono d’un colpo la figura. Con sguardo furioso, come trame spezzando, a me si volse: “Tortura degna vuoi forse fuggire, stolto dannato? Credi che l’anima pura tu abbia? Uscire non potrai”. Colto sprovvisto di difesa, il demone con rabbia al naviglio lanciò l’assalto, ratto saltò per prendermi; ciclone la forza prendendo, con balzo audace il grigio compagno come leone con rapida zampa un braccio capace dei quattro staccò di netto; con soffio minaccioso per l’essere rapace sconfitta annunciò: “Vattene! Il giusto fio, mortale, pagherai per l’ardire tuo.” Così parlò reggendo del graffio il dolore. Altro disturbo all’ire nostro non fu commesso, ma galera imponente, scura, che al progredire tra i flutti, dannati coglieva mera e dannati gettava, lungi vidi navigare l’infinita sua crociera. Infine al viaggio in celati lidi giungemmo ad un isolotto spoglio; il custode per caverna intravidi andare e dietro a lui mi mossi sveglio. |
RACCONTI SCRITTI IN PUNTA DI DITA, SCORRENDO COME IL PAESAGGIO A BORDO DI UN TRENO
giovedì 8 ottobre 2009
Canto Secondo
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