giovedì 8 ottobre 2009

Canto Secondo

Passata la porta mi trovai, d’un tratto,

in un’ampia caverna scura, che il lume
ben poco illuminava; per ogni anfratto
un’ombra rifletteva, come barlume
di paura. Fissai, chiusa la porta,
la mia guida che dell’antro le brume,
con occhi curiosi, esplorava accorta.
Quale posto era quello? Di che inferno
era parte quell’ampia grotta torta
ed inquietante? Forse qui attorno
passavano le anime condannate?
Questi quesiti tuttora discerno
tra ricordi e vaghe immagini nate
allora che la mia mente mantiene;
ma al tempo, tra scure nebbie portate
nella notte, m’accorsi da orme piene
che del gatto le tracce persi. Ratto
seguii delle zampe il corso, pene
soffrendo per il terrore che sotto
a quella volta il cuore t’attanaglia;
giunsi greve fino un passaggio rotto
nella roccia come piccola faglia.
Entro un corridoio angusto il custode
attendeva l’animo mio alla soglia;
come scavato da talpa che rode
di verdure le radici sembrava,
talmente stretto che l’avanzare ode
non merita, che pure strisciava 

la guida. Percorso il lungo budello
di rocce e massi composto, brillava
l’uscio di una fosca luce, tranello
temendo la testa sporsi cauto
e nebbia marina m’avvolse il collo.
La vista della cala rese muto
dei lamenti per il tragitto l’animo
mio; bianca spiaggia, di flauto
le melodie tra le rocce, limo
sugli scogli affioranti, splendente
tutto colse. Il felino, d’attimo
correndo, balzò su una galleggiante
barca posta a riva, pronta a salpare,
e fissò me con occhio bruciante;
altra via non v’era per cui trovare
la cava ove Rhas regnava? Non feci
in tempo la domanda a formulare,
onde enormi travolsero, dispreci
pietà, la rada frangendo forti
inondavano, e di pinne veci
i miei arti fecero; per sorti
fauste giunsi al naviglio leggero
che lentamente verso mari aperti

procedeva. Issata sull’albero
la vela, dal vento sospinti traccia
non v’era più della cala; invero
sol acqua si nota, tra i flutti breccia
non fanno scogli, ne alghe, ne d’isole
all’orizzonte si staglia la roccia;
sol onde si perdono in lente fole
fin dove l’occhio vede: caddero
gocce su vesti già zuppe e mole
felina, che sulla prua fiero
era posto, da cieli gravidi
d’acqua e saette lucenti nel nero.
Ore passarono in cerca di lidi
nuovi cui approdare, finché un guizzo
notai tra i flutti; d’umano vidi
una figura con furioso spruzzo
nuotare ratto verso il legno nostro,
ma preso venne da essere, nel mezzo
dell’impresa, di orrida specie, mostro
sembiante con coda di pesce, squame
coperto, viso deforme, indietro
spingeva il dannato; sottili lame
ferirono d’un colpo la figura.
Con sguardo furioso, come trame
spezzando, a me si volse: “Tortura
degna vuoi forse fuggire, stolto
dannato? Credi che l’anima pura
tu abbia? Uscire non potrai”. Colto
sprovvisto di difesa, il demone
con rabbia al naviglio lanciò l’assalto,
ratto saltò per prendermi; ciclone
la forza prendendo, con balzo audace
il grigio compagno come leone
con rapida zampa un braccio capace
dei quattro staccò di netto; con soffio
minaccioso per l’essere rapace
sconfitta annunciò: “Vattene! Il giusto fio,
mortale, pagherai per l’ardire
tuo.” Così parlò reggendo del graffio
il dolore. Altro disturbo all’ire
nostro non fu commesso, ma galera
imponente, scura, che al progredire
tra i flutti, dannati coglieva mera
e dannati gettava, lungi vidi
navigare l’infinita sua crociera.
Infine al viaggio in celati lidi
giungemmo ad un isolotto spoglio;
il custode per caverna intravidi
andare e dietro a lui mi mossi sveglio.

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