lunedì 25 febbraio 2008

Asterischi

Asterisco.
Asterisco.
Asterisco.
235 istruzioni da commentare, un lavoro adatto ad uno sbarbatello fresco di corso e che invece tocca a me, come tutti i giorni passati e come probabilmente tutti i giorni futuri fino a che mi diranno basta così, arrivederci e grazie per tutti gli asterischi. Dopo anni di applicazione, di professionismo, ritrovarsi sempre e comunque a disinnescare parti di programmi spesso delicati perché quelle procedure non sono più applicabili è un lavoro ripetitivo e quantomeno noioso.
Asterisco, asterisco, asterisco.
Mi sembra di essere un disco rotto, sempre le stesse lamentele, sempre a far notare quanto sia avvilente e frustrante il mio lavoro:
- Ma perché non cambi? - Mi aveva chiesto Susanna, 3 mesi fa, mentre davanti al solito drink serale snocciolavo nelle sue orecchie la stessa tiritera; non ne potevo davvero più di continuare a quel modo, senza mai vedere qualcosa di diverso da fare.
- Non è un momento facile per il mercato dell'informatica, le aziende non investono e c'è poco movimento; si dice che la situazione non può continuare così e prima o poi qualcuno comincerà un progetto grosso, ma al momento tutto tace.
- Secondo me non cambi perché te la fai sotto! Sono mesi che ti lamenti di quanto è noioso eppure non fai niente per migliorare la situazione: hai cercato di farti dare qualche altro lavoro dai tuoi capi?.
- Da loro non c'è altro lavoro se non quello; gli ho chiesto se c'era altro da fare, qualche programma nuovo, ma mi hanno sempre risposto picche.
- E allora cambia posto! Cercane uno dove ti facciano fare qualcosa di diverso, altrimenti finirai ad ammuffirti!
- Ma il mercato...
- Il mercato non c'entra! se sei così stufo di cosa stai facendo, ti conviene cambiare, e pazienza se per qualche giorno non si lavora.
Asterisco, asterisco, asterisco.
Sotto la spinta dell'insofferenza verso la mia attività avevo cominciato a far girare la voce tra i miei ex-colleghi, gente che nella mia decennale carriera avevo incontrato dai clienti più disparati, nella speranza che uno di loro mi offrisse un'occasione, una scappatoia da quella situazione ormai insopportabile; dopo un mese dalla mia chiacchierata con Susanna, Giovanni, uno con cui ho lavorato per 3 anni nel petrolchimico mi scrisse una e-mail, invitandomi a chiamare un numero per fissare un colloquio con la sua azienda, una di quelle ditte di consulenza informatica che vivono affittando i propri dipendenti ad altre aziende. Con nulla da perdere, tirai fuori dal taschino della camicia il mio cellulare e composi il numero, dopo qualche squillo mi rispose una voce giovane e squillante, di sicuro una ragazza sui vent'anni, che in breve mi fissò un appuntamento col loro responsabile del reclutamento. Tre giorni dopo mi presentai all'indirizzo fornitomi, forte del mio curriculum e della buona opinione di Giovanni sul mio operato professionale; non era il primo colloquio che affrontavo, eppure mi sentivo nervoso, come se fossi stato alle prime armi di fronte alla grande occasione:
- Prego, prego, si accomodi pure. - Il responsabile è una signora sulla quarantina d'anni ben vestita, ma per nulla appariscente, accanto a lei si trovava un signore più o meno della mia età, impeccabilmente vestito in giacca e cravatta col sorriso smagliante e lo sguardo sicuro, uno di quei tipi con abbastanza faccia tosta da vendere il ghiaccio agli esquimesi: sicuramente un commerciale.
- Grazie.
- Io sono la signora Maifredi e questo signore qui accanto è il signor Ambrosini, il nostro responsabile al collocamento dei programmatori presso i nostri clienti. Possiamo offrirle qualcosa? un caffè?
- Oh,sì grazie mille
il sorriso amichevole della signora Maifredi in qualche modo mi tranquillizzò e mi permise di compiere un normale colloquio di lavoro, in cui ripercorsi la mia carriera professionale dagli inizi, sottolineando le esperienze avute in manutenzione software.
Asterisco, asterisco, asterisco.
Da quel colloquio erano passati altri 40 giorni, 40 giorni in cui il telefono era rimasto muto:
- Appena avremo una posizione da offrirle la contatteremo - mi aveva detto il signor Ambrosini col suo sorriso smagliante da pescecane.
Avevo già pronta la lettera di dimissioni, dovevo solo metterci la data, e nel frattempo continuavo la mia monotona attività, non ne avevo proprio più per quel lavoro ed ero pronto a rischiare il tutto per tutto. Quella sera presentai la lettera ai miei capi, con 15 giorni di preavviso come da contratto.
Asterisco, asterisco, asterisco
Due giorni dopo Ambrosini mi telefonò:
- Salve signor Valsecchi, si ricorda di me?
- Buonasera, sì sì, mi ricordo. Ha delle novità?
- Uno dei nostri clienti migliori ci ha appena inoltrato una richiesta per una posizione che sembra proprio adatta a lei. A quanto pare un loro cliente si è trovato a dover coprire un buco d'organico per un progetto estremamente urgente, tanto urgente da non richiedere nemmeno un colloquio; viste le richieste mi è venuto in mente che il lavoro la potrebbe interessare. Riesce a liberarsi un paio d'ore per domani mattina?
- Sì, non dovrebbero esserci problemi. Dove ci troviamo?
- Si presenti alle 8.30 in sede da noi, l'accompagno io dal nostro cliente. Lei si rilassi stasera e non si preoccupi, andrà tutto bene. A domani.
- Arrivederci e a domani.
Stentavo a crederci, avevo una possibilità di cambiare! Come non mi succedeva da tempo la giornata mi sembrava stupenda e un largo sorriso era sbocciato sulla mia faccia.
Asterisco, asterisco, asterisco.
Il secondo colloquio andò benissimo, mi dissero che era necessario qualche giorno prima di poter cominciare dal loro cliente, questioni burocratiche da sistemare, ma che ero davvero la persona adatta per quel particolare progetto: Manutenzione software di un applicativo bancario che per le ultime norme sulla trasparenza doveva subire pesanti modifiche. Un progetto simile a quello che stavo seguendo al lavoro! Sì, ero decisamente l'uomo adatto, fresco d'esperienza sul tema.
Qualche giorno dopo i miei ormai ex-colleghi mi fecero una festa d'addio durante la pausa caffè; ero commosso e sinceramente mi dispiaceva lasciarli, persone con cui ho condiviso mesi e mesi di lavoro e di discussioni sul campionato e sulla politica.
Asterisco, asterisco, asterisco.
Dal finestrino dell'X5 del signor Ambrosini, quelle vie mi sembravano fin troppo familiari. Dopo qualche giorno passato a sciare, finalmente era arrivato il momento di conoscere il mio nuovo posto di lavoro; che tanto lontano dal vecchio non sembrava, visto che il commerciale mi stava portando nello stesso quartiere. Sapevo che in quella zona si trovavano altri centri di elaborazione dati, eppure una strana sensazione si era impossessata della mia mente, sensazione rafforzatasi quando Ambrosini imboccò la via del mio vecchio ufficio. Di fronte all'ingresso di quel palazzo che ho frequentato per anni ci aspettava il cliente, col suo sorriso smagliante che dopo pochi convenevoli ci fece strada verso la mia nuova postazione; quarto piano, le facce dei colleghi che avevo salutato solo una settimana prima mi guardavano con stupore, qualcuno stava trattenendo a stento uno scoppio d'ilarità perché aveva realizzato l'assurda situazione in cui ero incappato
- Toh, guarda chi c'è! ma non ci eravamo detti "addio" una settimana fa? con tanto di fazzoletti bianchi?
Non ci potevo credere. Era assurdo. È assurdo
Asterisco, asterisco, asterisco, asterisco...

giovedì 14 febbraio 2008

L'Approdo

Inesorabile, ancora una volta il sole sorge illuminando fin dall’orizzonte l’infinita, calma distesa d’acqua sulla quale la mia piccola barchetta galleggia da tempo. Ho perso il conto dei giorni, dei mesi che ho passato su questa distesa azzurra che senza fine si propaga per tutta la superficie su cui il mio occhio può stendere il suo sguardo, fino al punto in cui l’oceano e il cielo si fondono in un’unica sfumatura azzurrina, senza poter cogliere un’irregolarità, una protuberanza, un qualsiasi segno che mi indichi la presenza di qualcosa di diverso dal piattume che mi circonda, un misero lembo di terra verso cui fare rotta, verso cui spingermi per poter toccare con i piedi e le mani qualcosa di solido, di diverso dall’acqua salmastra.
Senza nemmeno uno sputo di vento a sospingermi, resto in balia delle onde, scrutando la linea piatta dell’orizzonte alla ricerca di una qualsiasi irregolarità che possa indicarmi una rotta, una direzione, una speranza di trovare un’insenatura dove finalmente approdare per ristorarmi, per rifocillarmi, con la tenue speranza di un colpo di fortuna e di giungere, finalmente, ad un porto ben attrezzato per fermarmi ed abbandonare questa vita da naufrago e viaggiatore solitario, per lasciare questa barchetta che dopo mesi di peripezie ancora resta a galla, nonostante le vele stracciate, lo scafo segnato, danneggiato, riparato alla bell’e meglio, l’albero scheggiato e profondamente segnato dalle tempeste affrontate: fedele quasi come un cane non mi ha mai abbandonato, decretando così la mia fine, e tutt’ora mi mantiene vivo e asciutto, anche se non so quanto ancora possa reggere, non so se sarà in grado di affrontare un’altra tempesta.
La rossa sfumatura dell’alba è mutata nella brillante luce del mattino, il sole comincia il suo frenetico lavoro sulla mia pelle ramata da settimane di esposizione: dovrei coprirmi, ma il mio sguardo è puntato su qualcosa che lievemente emerge dalla linea piatta, irraggiungibile; potrebbe essere qualsiasi cosa, un’altra nave alla ricerca di un porto, una spiaggia con quattro palme in croce, la lontana, lontanissima scogliera di un continente, troppo lontano per giudicare, ma è sufficiente per muovere lievemente il timone e prendere una direzione, nella speranza che si alzi una bava di brezza a sospingermi attraverso ciò che resta delle mie vele; potrebbe essere un’illusione, un miraggio, con questo caldo e il sole che ti picchia in testa senza tregua da giorni non è impossibile che i tuoi occhi s’ingannino e scambino un semplice riflesso dell’Oceano stagliato sull’azzurro cielo per un qualcosa di più tangibile e solido: eppure non c’è alternativa, è sempre meglio essere ingannati da un miraggio e dirigersi verso di lui che rimanere totalmente fermi nel mezzo di un mare piatto senza una sola prospettiva verso cui puntare.
Le ore passano lente mentre quello che è solo un lieve alito d’aria comincia a soffiare di traverso, permettendomi di acquisire un minimo di velocità e di poter puntare su quello che sempre più assomiglia alla sottile linea di una costa; chissà dove sono? Chissà se quella linea di terra che vedo è solo una piccola isola disabitata oppure si tratta della costa di un grande continente, con città e grandi porti dove poter attraccare? Chissà se sarà possibile fermarmi per sempre, o almeno potermi riposare un po’ sulla terra ferma, per poi riprendere la navigazione in cerca di una terra dove dimorare per il resto dei miei giorni, con una barca rimessa a nuovo? Chissà se dovrò ancora affrontare una tempesta prima di giungere a quel lembo che spunta dall’orizzonte... dato che ogni volta, ogni maledetta volta, da che ho cominciato la mia solitaria crociera, abbia intravisto una costa, un porto, un’insenatura, sono sempre stato travolto dalla furia degli elementi e dopo ore e giorni a combattere contro i marosi e la pioggia battente, allo spuntare del sole, mi ritrovavo a fissare la piatta distesa perdersi fino al suo confine, portato fuori rotta, quasi come se facessi parte di una commedia assurda, una di quelle situazioni brechtiane dalla quale non c’è via di scampo.
La mia meta si staglia sempre più netta, seppur lontana molte miglia, là in fondo al mio campo visivo, il vento soffia sempre leggero, ma in un lento crescendo che mi riempie di paura; non oso guardare altri punti che non siano la scura linea davanti a me, so che voltando lo sguardo su un altro orizzonte troverei minacciose nubi scure, cariche di pioggia e violenza, che non aspettano altro se non di travolgermi con la loro furia; potrei ritirarmi sotto coperta e lasciare la tempesta scatenarsi, magari con un po’ di fortuna non vengo sbalzato in un’altra direzione, perdendo quella flebile traccia per una svolta, anche temporanea, alla mia esistenza, potrei accettare passivamente la furia della pioggia battente sul mio corpo pregando che il vento e le onde non mi spostino troppo dalla mia rotta, che mi lascino comunque in vista di quella lontana, lontanissima costa, potrei non affrontare spavaldamente gli elementi che finora mi sono stati avversi: ma non si può permettere che siano gli eventi a decidere del proprio futuro, sono troppo stanco, troppo logoro per poter permettere all’ennesima tempesta di sviarmi dalla mia sola e unica speranza di salvezza, seppur effimera, seppur ingannatrice.
Con lo sguardo fisso verso quel punto dell’orizzonte approdo per la mia salvezza, affronto il mare che s’ingrossa in onde sempre più violente, mentre le nubi nere coprono il sole del tardo pomeriggio annunciando una fredda accoglienza fatta di pioggia srosciante: tutto quello che devo fare è mantenere saldo il timone e cavalcare il vento fattosi forte, pregando che lo scafo, segnato e mal ridotto, non ceda di schianto alla violenza della tempesta; il rollio diventa insistente e forte, le gocce d’acqua cadono pesantemente sul mio corpo come se non ci fosse un domani, inzuppandomi fino nel midollo mentre le onde s’infrangono sulla chiglia della mia barchetta con la violenza di un titano, quella piccola irregolarità scorta al mattino è ora coperta dalla tempesta, il vento impetuoso mi spinge sempre più forte, sbattendomi da mille direzioni diverse, cercando di strapparmi dai comandi che saldamente mantengo sulla stessa direzione intrapresa ore fa; la barca cigola, si lamenta straziante nel legno che subisce la furia delle onde implacabili sempre più grosse, sempre più minacciose, le vele forzate dal vento si lacerano in altri punti, un fulmine colpisce l’albero, facendo sprizzare scintille e spezzoni ovunque, qualcosa di pesante e umido mi colpisce alla testa, il dolore si fa intenso, ma non mollo il timone, puntando il mio sguardo pieno di puntini luccicanti verso un obbiettivo invisibile ma che so di fronte a me, qualcosa alle mie spalle cede con uno schiocco sinistro... forse una cima, logora, non ha retto alla sforzo di mantenere fisso qualche cosa, la randa oscilla velocemente, libera viene sbattuta dal vento avanti e indietro, avanti e indietro, velocemente, sempre più velocemente, un colpo d’una violenza inaudita mi atterra, i miei sensi vacillano, il buio mi avvince nel suo gelido abbraccio...



Inesorabile, ancora una volta il sole sorge illuminando fin dall’orizzonte l’infinita, calma distesa d’acqua sulla quale la mia piccola barchetta galleggia da tempo.

sabato 9 febbraio 2008

Una Notte di Pioggia

Mezzo chilo. Un altro mezzo chilo. Di certo non posso andare avanti così, con la bilancia che ogni maledetta volta segna il mio lento declino.
La pioggia cade copiosa dal cielo plumbeo che sovrasta la città in questa sera da lupi, ticchettando ritmicamente sui vetri delle mie finestre, gocce frequenti che rimbombano tra le sale di quest’appartamento deserto, creando la sensazione che sia molto più vuoto e desolato di quello che in effetti è; e la sensazione la vivi dentro di te, come se fosse un vampiro che ti stia succhiando le energie vitali direttamente dal cuore. Pochi secondi, le chiavi nelle mie mani, la porta di quelle stanze, di quelle casse armoniche per le gocce che cadono fitte, alle mie spalle, chiusa, mentre scendo le scale verso un’altra notte tra le braccia della mia migliore amante.
La città, come suo solito quando le nubi scaricano il loro contenuto su una terra riarsa dalla sete, sembra un’altra, quasi un fantasma rispetto alla trafficata e caotica selva di persone, macchine e animali che passano la maggior parte del tempo nei loro quotidiani tragitti ad insultarsi, a prendersi in giro, a vociare per una frenata brusca o per un incedere troppo lento sulla loro strada, con l’acqua che cala copiosa sono in pochi a intraprendere le vie e i corsi, e lei respira e si mostra con un aspetto seducente e ingannatore; quanti ricordi, quante notti come questa ho passato camminando per le strette vie del centro, mal illuminate da lampioni funzionanti solo per caso, lontano dai fulgidi neon dei night e delle pubblicità in cima agli alti palazzi, fermandomi a chiaccherare con l’occasionale barbone che tentava, invano, di dormire qualche ora prima di dover mollare la sua panchina ad adolescenti coppie con vestiti peggio conciati dei sui stracci.
Quanta gente hai rovinato, quanta ne hai ridotta a vivere di rifiuti e case di cartone, tu che ad ogni angolo sei capace di offrire qualsiasi tipo di svago e divertimento, che ammicchi a chiunque venga da fuori e poco ti conosce per quella che sei, promettendogli comodità e successo, facendo credere quasi che tutto è più semplice, tutto è a portata di mano, basta allungare le braccia e aprire le proprie palme per toccare quanto di meglio ci sia al mondo, e poi, spietata, sveli l’illusione che hai creato e ti mostri per quella che sei: un’ingorda, una famelica Salomè che abbraccia con voluttà le proprie vittime prima di farle sparire, per sempre, tra le proprie braccia; ho ancora in testa quella prima notte, eri affascinante e travolgente, ovunque era un’occasione per divertirsi, per ridere, per provare piaceri e lussi sempre diversi, io con gli occhi di un bambino al luna park, sempre pronto a gettarmi dentro le nuove attrazioni che mi si paravano di fronte. Quanto ti ho amato quella notte, quanto mi hai dato di te, facendoti poi scoprire con la luce dell’aurora che piano piano s’arrampicava tra i tuoi palazzi più belli, mostrandoli sotto una luce che sono in pochi a vedere, e che spesso ho voluto rivedere.
I semafori lampeggiano, la radio sputa fuori canzoni come se non ci fosse un domani, col volume abbastanza alto da coprire il tamburellare delle gocce sulle lamiere di quel vecchio catorcio che mi accompagna da troppo tempo, ogni tanto incrocio una macchina, sparata a tutta velocità sui grandi viali, come se correndo all’impazzata si possa sfuggire alla tua perfidia; ho fame, ma non posso fermarmi ad un chiosco, uno di quelli che ospiti ogni notte permettendo a chi vuole un rapido spuntino fatto di grassi, non posso permetterti di distruggermi ancora, di portarmi un altro passo verso il baratro, di ingoiarmi per soddisfare la tua, di fame; eppure ancora adesso ti amo, un’altra come te non l’ho trovata, negli anni, che più mi coccolasse, solo con te ho toccato le più alte vette della realizzazione umana, solo con te ho potuto dire “sono felice”; quante volte ti ho decantato la tua bellezza, la tua freschezza, il tuo essere giovane, a volte ribelle e tu ne eri appagata, sorridente e gioiosa ogni volta a sentire le mie parole, almeno fino a quando non hai trovato qualcun’altro su cui puntare, a cui mostrare quanto si potesse ottenere, abbandonandomi al mio destino, cacciandomi da quel podio che mi sono guadagnato con tanto sudore. Ma non sono ancora vinto, c’è ancora qualche possibilità che io torni ai miei fausti giorni, nonostante il tuo disprezzo, la tua non-curanza, e non sarai tu a portarmi a quella vetta, non lo farai una seconda volta, per te io non sono altro che un giocattolo vecchio ed usato.
Il motore della macchina che per anni mi ha scarrozzato per le tue arterie, d’improvviso si spegne, la lancetta dell’indicatore ben oltre la tacchetta che indica un serbatoio completamente proscugato, distratto come sono non ho badato al carburante e adesso non mi rimane che abbandonare il vecchio catorcio e cercare un distributore, con in tasca abbastanza denaro per un pompino e sei giorni di indigenza, un digiuno che si protrae ormai da mesi e che finirà per straziarmi, in attesa di una chiamata che potrebbe riportarmi alla vita e non a questa mera pantomima; le tue nuove luminarie con le loro luci ambrate ad avvolgerti qui non sono giunte, i lampioni illuminano a intermittenza il grande viale dove mi trovo, in fondo alla strada un cartello che sotto questa pioggia incessante sembra un miraggio, il percorso un bazar di tentazioni e pericoli: occhi impauriti sotto ombrellini da borsetta e vestiti succinti a mostrare la mercanzia, figure nell’ombra che ti sussurrano di mondi nuovi ad un prezzo ridicolo, che ti chiedono se vuoi qualcosa, se hai qualcosa, che ti invitano a giocare con loro il tuo futuro attraverso la lama di un coltello; il tuo lato sporco, quello che non vuoi far vedere ma che ti porti appresso sempre, quello che copri con la tua rispettabilità, i grandi progetti, le grandi idee, quello che usi più spesso per saziare il tuo famelico appetito di dissoluzione, di vergogna, di distruzione, quello che scopri dopo aver visto lo splendore e la magnificenza della tua altra faccia: puttana, mi hai trascinato senza sosta, senza pausa per le tue strade non accorgendomi di essere agli ultimi sgoccioli di benzina, lontano da casa, ebbro ancora una volta della sensazione di dominarti, di averti mia e solo per me; che stupido che sono, nonostante ti conosca bene ancora ci casco, ancora mi illudo di poterti avere, anche se solo per una notte.
Punto forte, non saranno i miei pochi spiccioli a cambiargli la via, mentre a me servono dannatamente, dato che non ho altre risorse, ma il tuo burattino trascinato dai suoi animaleschi bisogni conosce meglio il gioco, ci sa fare e non impiega molto a privarmi della posta in palio; se ne va poco soddisfatto, mentre io continuo a scorrere assieme ai rigagnoli verso la più vicina pozzanghera, le gocce cadono irrefrenabili e senza alcuna pietà, l’aria che d’improvviso si riempie di un suono assordante e di una intermittenza blu e arancio, prima che tutto diventi un piccolo, inutile, insignificante dettaglio.

domenica 3 febbraio 2008

Duello

Questo e i prossimi racconti hanno partecipato ad un concorso letterario organizzato sul forum dei bookcrosser italiani. Il merito di questa grande idea va a Zazie, che ringrazio per aver stimolato la mia indole creativa.
Saranno tutti contrassegnati da un'etichetta (BC Concorso Letterario)




Il sole picchiava sulle loro teste come un maglio in una fucina batte su di un’incudine. Tom sapeva che da quella situazione non vi era scampo, non vi era una via di fuga; eppure non poteva finire così. Che lui e Tracy non andassero d’accordo lo sapeva tutta la città, ma addirittura intestardirsi per quella dannata bottiglia, per volerla a tutti i costi fino a giungere a questo punto, ad un vero duello, gli sembrava talmente irreale da cercare ancora di capire come fossero arrivati a tanto. Erano passati solo pochi giorni da quando, demolendo l’ennesimo edificio abbandonato, trovarono alcune casse contenenti delle bottiglie vuote, risalenti al tempo in cui in quell’arida piana pietrosa scorreva, limpida, l’acqua di alcune fonti nelle vicine colline. Un panorama ben diverso da adesso, verdi pascoli e campi coltivati si perdevano a vista d’occhio lungo tutto il corso del fiume; poi le fonti da un giorno con l’altro si seccarono e non vi fu più acqua.
Raccolti bruciati dalla siccità, manzi e pecore che per fame o per sete morivano in massa, intere famiglie rovinate, molti emigrarono cercando fortuna oltre le montagne. Le montagne: un confine tra la vita e la morte, dopo di quelle vi era prosperità e benessere, città enormi illuminate grazie alla potenza dell’energia elettrica ricavata dalle grandi centrali che sfruttavano la forza dell’acqua; sicuramente un posto migliore dove vivere, ma per arrivarci ci voleva molto denaro.

Erano tutte vuote, quelle bottiglie, reminiscenze di un tempo ormai lontano, seppure fossero passati soltano una ventina d’anni, e spostandole loro due ne notarono una diversa, pesante, chiusa....
piena: acqua delle fonti, vi erano dei collezionisti, vecchi papaveri arricchitisi col disastro, che avrebbero pagato il loro peso in oro per potersi fregiare di quel trofeo. Tom fu più veloce, prese la bottiglia e corse via, dando uno spintone a Tracy e mandandola a sbattere contro una delle travi portanti dell’edificio. La furia della ragazza non tardò a farsi sentire; d’altra parte l’oro avrebbe permesso la fuga da quell’inferno fatto di polvere e vento, con l’acqua clorata importata da oltre le montagne per sopravvivere. Lo cercò per tutta la città, urlando il suo nome, intimandogli di restituire ciò che gli aveva rubato; passarono solo poche ore, e Tom si trovò di nuovo di fronte quegli occhi azzurri come il ghiaccio, nelle vicinanze di uno dei pochi negozi ancora aperti:
- Dove pensavi di scappare? - La rabbia le usciva insieme alle parole, ringhiate tra i denti.
- Perché, tu non l’avresti fatto? -
- Dammi la bottiglia. -
- Scordatelo, è il mio passaporto verso una nuova vita, lontano da questo deserto. -
- NO! È MIA! IO DEVO ANDARMENE! IO NON POSSO PIÙ RIMANERE A MARCIRE TRA QUESTE STRADE! - Le sue urla si diffusero per tutta la strada.
- NEMMENO IO, BELLA! -
Tracy lo colpì con violenza, una due tre tante volte, prima che lo sceriffo la bloccasse.

Non era la prima volta che si azzuffavano per qualcosa, ne che finivano a passare la notte in una cella; cresciuti in un ambiente arido di soddisfazioni, non erano mai riusciti a trovare un modo per andare d’accordo: erano più le circostanze che il loro volere a metterli fianco a fianco, spesso all’interno delle pareti di quella fredda cella, divisi soltanto da alcune sbarre; notti passate a lanciarsi insulti e sputi, dato che venire alle mani era impossibile. Passarono molto del tempo in silenzio, lanciandosi occhiate piene di furore: allo sceriffo della bottiglia non dissero nulla, e lo sceriffo stesso non stette a perdere molto tempo con loro. A Tom non andava questa situazione di stallo: entrambi erano stanchi di quella vita senza prospettive, entrambi ne volevano una nuova, lontano, oltre le montagne, entrambi volevano potersi fare il bagno in acqua profumata e non in quel miscuglio canforato che arrivava ogni settimana da chi ancora l’acqua la possedeva, e la faceva pagare a caro prezzo:
- Cosa faresti una volta fuori da queste terre? - chiese Tom, nel cuore della notte: sapeva che lei non stava dormendo.
- Una casa, un lavoro decente, non quello schifo che facciamo qui, studiare... cambierei tutto, radicalmente - rispose, la voce quasi un sussuro. - E tu? -
- Più o meno le stesse cose -. C’era tristezza nella sua voce. - E se partissimo insieme? Vendiamo la bottiglia e con quello che ne ricaviamo, via, oltre le montagne... di oro c’è ne abbastanza per entrambi -
- Per arrivare là, e poi? Hai idea di quanto costi il viaggio? Non ho voglia di partire da qui sapendo di dover fare la fame una volta giunti alla nostra meta! -
- Ma io e te, assieme, potrem... -
- Io e te? Nemmeno morta, Tom! -
- Bella gratitudine! Ti sto offrendo una possibilità per fuggire da qui! -
- In cambio di cosa? Di me? Pensi di comprarmi così? -
- Fottiti! - disse Tom, con un sospiro.

Il vento mosse la sabbia rossastra della strada, lei ancora una volta di fronte ai suoi occhi, e questa volta sarebbe stata l’ultima. Dopo aver passato due giorni nelle accoglienti stanze dello sceriffo, Tom cercò di vendere la bottiglia, ma ogni volta che trovava un acquirente Tracy finiva per ostacolargli la transazione; andò avanti una settimana, contrattando a mai concludendo, con la ragazza sempre tra i piedi; non poteva andare avanti così, doveva affrontarla una volta per tutte: fu lei a sfidarlo a duello.
Gli portò proiettili e pistola, e gli diede solo ventiquattr’ore per farsi trovare di fronte al vecchio bar con il prezioso oggetto: lo sceriffo era in viaggio per la piana.
La bottiglia era lì, nel mezzo quasi a tracciare un confine invisibile tra i due contendenti; l’aria era tesa, l’atmosfera di attesa quasi irreale, per la strada unici spettatori i gatti: la campana della chiesa in fondo allo stradone cominciò a battere dodici rintocchi: un solo movimento, fluido, il braccio che rapidamente estrae la pistola, arma il cane, un doloroso e violento impatto sulla fronte e il suo cappello che vola, alto, il grilletto che viene azionato...



Il suono di vetri infranti e l’urlo carico di rabbia di lei furono gli ultimi rumori che Tom udì.