Come l’aurora sorge tra i ghiacci, fulgida, cristalli perenni luce rifrange d’arcobaleni capricci, così mi parve fatto, quando il duce mio in cima alla scala giunse, l’antro. Quanti gradini calcai non deduce memoria, che chiocciola stretta dentro la roccia seguimmo per ore; le volte complesse, fin dalla cava di vetro, osservai con orrore per le molte pene che alle anime vengono imposte. Del cero la fiamma accesa, alte colonne di ghiaccio e stanze vaste di colori inondavano lo spazio, come farfalle d’estate le coste di Angamor riempiono. Artifizio di natura, per questi ambienti spediti procedemmo senz’ozio, che il gelo battere faceva i denti. Curioso al volgere delle sale, come gatto che esplora bastimenti novelli, la fattura senza male di quel luogo osservai da vicino; narrare come posso del ferale ambiente lo strazio che il destino pose in cuor mio, Lhyra te invoco a tenere la penna almeno sino al concludere novella del loco! Figura d’elfo colsi nella stele di ghiaccio chiusa, occhi col fuoco ancor vivo fissarono, fiele stillante, la mia sagoma; subito ritrassi d’un passo e come di tele svelati i segreti, di kender cito le forme, e orchetti, e nani in teche cristalline scorsi. Per quale sito giunsi non ricordo, di fronte a fosche stanze fermai il mio fuggire, la guida lasciata dietro alle sembianze losche; come del vento il sussurrare fida dei cantori, del lazzo e del deriso viene fatto zimbello, così rida chi alla mia verità si ponga inviso. Di corpo umano la sostanza nota pareva in quel blocco incompleto; liso non sembrava dal tempo che ruota senza sosta ed il volto dalla pena sua resi libero: “Quale sorte immota spinge un Dragone a venire sirena di vita per l’alma di Federico | Squarcialupi? Dannato tu sei, lena cerchi per le tue colpe? No, io dico, vivo rimani che di corpo odore l’aria assume.” Al cogliere aulico del condottiero il nome, l’onore ribelle ancora lo acclama, d’un tratto mi trovai due passi indietro; dolore non colsi su quell’uomo trafitto dai veleni di Treon e il motivo gli chiesi di questa tortura: “Atto non feci, ne patto accettai vivo, che per tale prigione mi condanni. Nessun giudizio di reo viene privo di prove, eppure emesse perenni sentenze furono per molti. Come giunsi in questo blocco non so, insonni non fummo, fin quando il gelo nome non prese. Questo solo inferno atroce, pungente, io non osservai; quali some, nel fuoco camminammo, qual croce pesa la pena sulle nostre spalle; quale motivo ti spinge alla foce di questo corso?” Il lume di frolle cangianti riempì la cava, fronte faceva al buio con riflessi mille e di Federico il quesito, errante, rispose. Poi ratto riprese: “Breve non è la tua via, pazzo incosciente, che credi di ottenere? delle leve degli Dei il vero non puoi sapere, ne affrontare la loro ira. La neve si scioglie in acqua per loro volere, per loro capriccio si combattono guerre; oltre quest’antro giacere del fuoco, aspra pena, patrono, ed ancora per il fumo noioso dovrai passare; dell’acqua, non sono certo, edotto già sei, e, curioso, del ghiaccio la pena non sei ignaro. Altro ho da dirti.” Giunse doloso morso dal mio fido guardiano, raro attacco a punire il mio andare solo: “Attento, mortale, castigo amaro ti spetta, da Rhas immortale.” Volo non feci grande, del gatto la forma seguendo dappresso, su cigolo sospetto del pavimento, conferma dell’ultimo dire appresi; spezzato fu il ghiaccio che il peso poggiava orma, e caddi nell’abisso senza fiato. |
RACCONTI SCRITTI IN PUNTA DI DITA, SCORRENDO COME IL PAESAGGIO A BORDO DI UN TRENO
sabato 17 ottobre 2009
Canto Terzo
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