giovedì 5 novembre 2009

Canto Quinto

Quale strada era per me destinata?
Rispondere non saprei, che l’unica

corsa al mondo mortale era bloccata.
Ma del gatto la coda rivendica
la mia attenzione al nuovo ambiente,
che la fiamma del cero nemica

si pose all’ombre, vittoria mancante.
Mossi due passi e su scivolo liscio
caddi d’improvviso, che per levante
piegava in stretta curva; come fascio

che corre su ruscelli per giungere
alla legnaia, così parvi, straccio,

al fondo della scesa che tenere

dello stomaco il contenuto impresa
ardua rimase. Del corpo le sfere
riprese, con occhi sognanti, tesa

la mano per aiutare il compagno,

del nuovo antro visione fu presa:
alte colonne di fiamme, magno
splendore, sostenevano la volta

bruciante, ignei muri disegno

tortuoso all’arena, come folta

foresta, intrecciavano; di picchi,
massi e ceneri nere per sciolta

materia era formata, da fuochi

d’eterna durata, il territorio.
Come gran forno per d’argilla bricchi,
che mai spegnersi deve, desiderio
d’acqua induce al manovale costretto
alla sua bocca, così pressante rio
la corrente d’aria fece ratto
ricercare di questo inferno uscita.
Col custode tra le mie braccia stretto,
fiamme crepitare da fiorita
fessura d’uso era, per labirinto
ardente il cammino presi. Bandita
ogni memoria d’incendio, qual canto
di sirena d’affetto privo, pire
aggirando e corridoi, affranto,
seguendo per lunghi tratti, dire
non saprei quale breccia intrapresi
che colonna di penitenti l’ire
incrociai. Da grandi croci offesi
di acciaio rovente, che mai stempera
in questa fornace, su spalle pesi
opprimenti trascinano; libera
frusta schiocca su schiene nude,
dei pellegrini il passo alla lettera
comanda; degli aguzzini, per rude
violenza creati, le sembianze
non descrivo, che tali viste, crude,
al mio terrore abboccare di lenze,
come storione con alice s’inganna.
Volgendo gli occhi per cogliere assenze,
salvo fui dal loro nerbo, madonna
vidi, per poco non svenni, che fato
diverso credevo compiuto; zanna
di lupo e d’orso la mole fermato
giammai l’impeto della sua carica,
tale da sembrare dardo scagliato
al cuore del bersaglio, stoica
nel difendere dei clienti merci
e vita, dura maestra, pratica
d’ogni arma, occhi zaffiri, perderci
ancora notte volontà affiora.
Sorpresa colse lo spirito, torci
membra, volto sfigurato, d’allora
splendore ormai spento, senza parole
rimase al vedere forma logora
del suo fido scudiero: “Regole
infrangi? Leggi d’eterna fattura
rifiuti? Di così misera mole
è la croce che porti tra le mura
da non notarsi? No, vita circonda
la tua presenza e gioia matura
a vederti.” Nascosto tra la banda
dei dannati, tempo ebbi per parlare:
“Metà sei del percorso che discenda
alla foce del tutto; desiare
lumi coraggio dimostra, trappola,
temo, sarà fatta presto scattare.
Quante avventure, qual mera favola
abbiamo vissuto, le risa, ricordo,
dei tuoi canti buffi, mai parola
di scherno fu sì gradita, sguardo
attento rimembro nelle lezioni,

le notti…”. Come miele cola tardo
da alveo pieno, così brama visioni
d’allora porta e di salvare l’anima
sua a nuova vita, ma tali doni
dal guardiano non ottenni; prima

con basso miagolio, poi con morso
diniego diede. Svelato nella rima
della folla, da frusta colsi verso
sulla schiena; senza porre indugio
corsa feci del mio passo, che perso

ero se catturato. Con vantaggio
poco, dei demoni urti di filata
evasi, ratto per via torta, ligio,
di caverna attraversai l’entrata.

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