Secondi passati immoti, di sogni popolando con ninfe allegri giochi, per breve sonno fui steso; ritegni non ebbi a dormire su freddi solchi che del luogo erano pavimento. Ma sollievo ad orrori sì biechi non v’è; svegliato con colpi cento di zampa rovescio, tale la forza da staccare teste, vidi distinto del fido compagno le zanne. Scorza dura la pelle, qual buccia di pesca protegge l’interno, dolore smorza per nulla, che la visione si offusca. Ripresa del viandante la forma migliore, sanato dai danni, losca camera osservo e desiderio d’arma volge al pensiero mio, che l’antro cupo paure antiche richiama; rafferma l’aria, sospiro non mette, lupo sembiante il fumo ci avvolge tetro, solo esso qui è presente, dirupo profondo d’un nulla evitammo, che entro la luce del cero l’orlo scorgemmo. Seguendo del gatto il passo scaltro, balzando tra crepe, gole passammo, brecce tra rocce contando, fumose forme e pennacchi di nebbia cogliemmo soltanto; memore d’incendi, cose di tempi ormai passati, l’acre odore che respiro toglie e lacrime ombrose fa versare all’animo mio, cuore ancora non regge tali ricordi, su tutto regnava. Quanto dolore costa questo andare per corsi lordi di fuliggine e braci ardenti? Quale prezzo sto pagando? Quali balordi motivi mi hanno spinto del male traversare l’orribile distesa? Sava, tua è la colpa e nulla sale ad onore per quel che vidi; pesa fardello quella spada, maledetta, si spezzi come spezzò dell’attesa la vita mia; mai scalare vetta senza conoscerne i perigli angusti, eppure a questa impresa, eri matta, mi lanciasti; qual curiosa, vesti spulciando, in bancarelle di mercanti Nalimensi, del viaggio molesti consiglieri, di sapere volenti, foste tu e quell’incantatore vero | che a filosofare tendeva. Menti fini tale cammino mai avrebbero proposto! Comunque al danno compiuto non v’è riparo, della stesa il mero fumo tutto copriva, senza aiuto alcuno procedemmo, ne i dannati disturbare si poteva; di muto lamento, i volti deformi privati di vista, percorsi da pinnacoli grigi che entro e fuori da stipati corpi corrono, respiri refoli solo permettono; qual infame prodezza compirono, che da proli perverse questa tortura di grame sementi soffrono? Vedere l’ombra d’uomo noto soffrire per lame di fosca natura il dubbio tra membra ghiacciate non solse. Nel vivere nostro, della Terribile le labbra veci per tempo fece, che collere a Nalim non diedero danno alcuno; ma, folle corsa, Alarico al potere tese le mani, non trovando pruno di frutti provvisto tra vecchie mura, Karmisia ai propri servigi tribuno si pose e mai a dolo fu posto cura. Pensiero non s’ebbe per la sua sorte, qual misero fato colse e perdura, quando del cuore giunse la morte; notare la sua figura tra queste distese, stupore pose tra aperte braccia, ma di colloquiare, triste, non fu concesso tempo; del custode il passo si fece cauto, viste tra i fumi di guardiani le code. Di esile corpo, le braccia possenti in artigli, lo sguardo corrode maligno del volere forza, denti aguzzi come lame completano il quadro; del pericolo tremanti, tra due file ci muovemmo, d’un vano la strada posero; non uno mosse verso di noi, ne grido volse, strano, quando alla porta giungemmo. Con rosse tende a decorare l’entrata, l’antro passammo guardinghi, nero trasse che solo il lume di visione metro fece. D’un tratto con sordo rumore le ante si chiusero, di travi destro, colsi coi lobi sinistro stridore. |
RACCONTI SCRITTI IN PUNTA DI DITA, SCORRENDO COME IL PAESAGGIO A BORDO DI UN TRENO
venerdì 23 ottobre 2009
Canto Quarto
sabato 17 ottobre 2009
Canto Terzo
Come l’aurora sorge tra i ghiacci, fulgida, cristalli perenni luce rifrange d’arcobaleni capricci, così mi parve fatto, quando il duce mio in cima alla scala giunse, l’antro. Quanti gradini calcai non deduce memoria, che chiocciola stretta dentro la roccia seguimmo per ore; le volte complesse, fin dalla cava di vetro, osservai con orrore per le molte pene che alle anime vengono imposte. Del cero la fiamma accesa, alte colonne di ghiaccio e stanze vaste di colori inondavano lo spazio, come farfalle d’estate le coste di Angamor riempiono. Artifizio di natura, per questi ambienti spediti procedemmo senz’ozio, che il gelo battere faceva i denti. Curioso al volgere delle sale, come gatto che esplora bastimenti novelli, la fattura senza male di quel luogo osservai da vicino; narrare come posso del ferale ambiente lo strazio che il destino pose in cuor mio, Lhyra te invoco a tenere la penna almeno sino al concludere novella del loco! Figura d’elfo colsi nella stele di ghiaccio chiusa, occhi col fuoco ancor vivo fissarono, fiele stillante, la mia sagoma; subito ritrassi d’un passo e come di tele svelati i segreti, di kender cito le forme, e orchetti, e nani in teche cristalline scorsi. Per quale sito giunsi non ricordo, di fronte a fosche stanze fermai il mio fuggire, la guida lasciata dietro alle sembianze losche; come del vento il sussurrare fida dei cantori, del lazzo e del deriso viene fatto zimbello, così rida chi alla mia verità si ponga inviso. Di corpo umano la sostanza nota pareva in quel blocco incompleto; liso non sembrava dal tempo che ruota senza sosta ed il volto dalla pena sua resi libero: “Quale sorte immota spinge un Dragone a venire sirena di vita per l’alma di Federico | Squarcialupi? Dannato tu sei, lena cerchi per le tue colpe? No, io dico, vivo rimani che di corpo odore l’aria assume.” Al cogliere aulico del condottiero il nome, l’onore ribelle ancora lo acclama, d’un tratto mi trovai due passi indietro; dolore non colsi su quell’uomo trafitto dai veleni di Treon e il motivo gli chiesi di questa tortura: “Atto non feci, ne patto accettai vivo, che per tale prigione mi condanni. Nessun giudizio di reo viene privo di prove, eppure emesse perenni sentenze furono per molti. Come giunsi in questo blocco non so, insonni non fummo, fin quando il gelo nome non prese. Questo solo inferno atroce, pungente, io non osservai; quali some, nel fuoco camminammo, qual croce pesa la pena sulle nostre spalle; quale motivo ti spinge alla foce di questo corso?” Il lume di frolle cangianti riempì la cava, fronte faceva al buio con riflessi mille e di Federico il quesito, errante, rispose. Poi ratto riprese: “Breve non è la tua via, pazzo incosciente, che credi di ottenere? delle leve degli Dei il vero non puoi sapere, ne affrontare la loro ira. La neve si scioglie in acqua per loro volere, per loro capriccio si combattono guerre; oltre quest’antro giacere del fuoco, aspra pena, patrono, ed ancora per il fumo noioso dovrai passare; dell’acqua, non sono certo, edotto già sei, e, curioso, del ghiaccio la pena non sei ignaro. Altro ho da dirti.” Giunse doloso morso dal mio fido guardiano, raro attacco a punire il mio andare solo: “Attento, mortale, castigo amaro ti spetta, da Rhas immortale.” Volo non feci grande, del gatto la forma seguendo dappresso, su cigolo sospetto del pavimento, conferma dell’ultimo dire appresi; spezzato fu il ghiaccio che il peso poggiava orma, e caddi nell’abisso senza fiato. |
lunedì 12 ottobre 2009
Ecate
Questo racconto avrebbe dovuto partecipare al quinto concorso letterario BC, cosa che però non è avvenuta per una mera questione di tempo: quando decisi di scriverlo il termine per la consegna dei racconti era scaduto...
Il vento passò ancora una volta tra le fronde della quercia, facendo stormire le foglie ingiallite dall'autunno, mentre lei aspettava; era passato parecchio tempo dall'ultima volta ed attendeva con impazienza che arrivassero, era addirittura in anticipo per non perdere minuti preziosi in loro compagnia: in fondo quella era una giornata speciale.
L'incrocio era deserto da ore, disperso nel bel mezzo della campagna, il silenzio interrotto soltanto dal canto dei corvi e dal gorgoglìo di un canale d'irrigazione. Giunsero dalla strada ad est, con la luce della luna appena alzatasi alle loro spalle, con passo tranquillo e l'aria serena; quando le vide le fece un gesto di saluto e sorrise:
"Ciao! Come state? Tutto bene?"
"Ciao piccola, noi stiamo bene, e tu?" disse la più piccola delle due figure, una donna anziana dalla pelle segnata di innumerevoli rughe, i capelli bianchi raccolti in uno chignon d'altri tempi.
"Nonna, ormai sono una donna, non chiamarmi piccola!"
"Per me resterai sempre la mia piccola" rispose la nonna mostrando un lieve sorriso "il viaggio è stato faticoso, ci sediamo?"
Si accomodarono alla base della quercia dove un piccolo falò ardeva consumando rametti e foglie secche, appoggiando la schiena al grande albero e fissando l'incrocio illuminato dalla luna:
"Allora, tesoro, cosa ci racconti?" Fu l'altra donna a parlare, una signora imponente e dall'aspetto severo.
"Va tutto bene, mamma. Sono a capo di una squadra, lavoro sodo e bene, faccio dalle 10 alle 12 ore, spesso salto anche la pausa pranzo; Io e Giulio stiamo pensando di comprare un appartamento un po' più grande di quello dove stiamo, il mutuo è un bell'impegno ma dovremmo farcela"
"Quando vi sposerete?" chiese la vecchia
"Sposarci? E perché?"
"Il matrimonio è importante" rispose l'altra donna
"Il matrimonio non vale niente, è un'inutile vecchia istituzione" disse la giovane donna
"Bah! Vivi nel peccato!" rispose la nonna, guardandola fissa negli occhi "Il matrimonio è la garanzia di una famiglia stabile e di un ambiente sano per i propri figli! » la sicurezza di avere un uomo a fianco che ti protegga e si occupi di sfamarti, sempre, mentre tu ti occupi della casa e di crescere i bambini. Con un marito non saresti obbligata a lavorare"
"Mama, i tempi sono cambiati" intervenne la donna imponente.
"Anche tu ti sei sposata"
"Sì, perché lo amavo. Ma anche dopo il matrimonio ho continuato a lavorare, perché altrimenti non saremmo mai riusciti a crescere lei e i suoi fratelli, a dare loro le possibilità che noi non abbiamo avuto. E non mi sembra di aver fatto un cattivo lavoro"
"E allora perché dovrei sposarmi?"
"Per rendere il tuo rapporto più solido, per legarlo a te con una promessa indissolubile"
"Sotto la tutela di Nostro Signore" aggiunse la vecchia
"Mama, l'importante è la promessa: che a testimoniare sia un prete o un ufficiale dello stato è lo stesso"
"Il matrimonio è sacro! Lo stato non può intromettersi"
"Ma io non voglio un legame così forte. È una condanna, una prigione... io voglio essere libera!" esclamò la giovane
"Tuo fratello si è sposato!"
"Se lui è scemo, io che ci posso fare?"
"Rispondimi, lo ami il tuo Giulio?"
"Ecco, mamma... beh, sì, credo di sì... a volte litighiamo ma mi pare normale, litigavate spesso anche tu e papà... però, ecco, a volte..."
La luna splendeva nel mezzo di un cielo limpido e stellato, stendendo un velo azzurrino di luce sui campi di grano e trifoglio
"Sei sciupata, tesoro, dovresti lavorare di meno"
"Non posso, mamma, c'è così tanto da fare..."
"Tuo padre ed io non abbiamo rischiato il carcere per vederti lavorare così tanto"
"Ti sei scelta un lavoro non per te, piccola" intervenne la vecchia "Le donne non sono adatte a comandare, non è il loro ruolo"
"E quale sarebbe un lavoro per me, nonna? L'infermiera? La segretaria? La commessa? Non ho studiato e faticato tanto per poi far decidere altri"
"E cosa ci sarebbe di male? Una donna che lavora quanto tempo può dedicare ai suoi figli? O a suo marito? Ho lavorato anch'io quand'ero signorina, sono andata a servizio da una signora di città, mi sono spaccata la schiena a pulire, cucinare e badare alla loro casa, ma appena mi sono sposata ho smesso, perché i miei doveri erano altri. C'era un maggiordomo a dirigerci e non ho mai pensato di poter prendere il suo posto."
"Mama, cos'ha un uomo che una donna non può avere?" rispose la signora dall'aria severa "Quando ero in fabbrica ho scioperato per avere condizioni migliori, giorni di ferie e malattia garantiti, diritti che oggi sembrano ovvi. Suo figlio ha manifestato per il riconoscimento della maternità, ha subito le cariche della polizia, ha affrontato i lacrimogeni per avere un posto di lavoro più sicuro. E per non essere pagato una miseria. Io stessa sono scesa in piazza per reclamare pari diritti alle donne. E non ho mai smesso di lavorare."
"Ma anche tu non hai mai pensato di metterti a capo della fabbrica."
"Vero, ma sia io che lei non abbiamo studiato abbastanza; però ho lottato perché a mia figlia quegli studi non fossero negati, e lei, da genitori operai è diventata dottoressa"
"E io non ho ancora smesso di ringraziarvi per tutti i sacrifici che avete fatto per me" disse la giovane
"Oh Signore Benedetto, ma fare il soldato è un lavoro da uomini! Anche se da ufficiale, rimane comunque un compito per gli uomini"
"Perché, nonna, perché? Non mi manca la capacità di reagire, ne la decisione, ne il coraggio, ne la testa per fare il militare. I tempi sono cambiati, difendere la nazione non è più una prerogativa maschile, e io voglio fare la mia parte"
"Anch'io avrei preferito scegliessi un'altra carriera, ma è la tua vita ed è giusto che sia tu a deciderne le sorti. Io sono orgogliosa di te"
"Grazie mamma" disse la giovane sorpresa, con un accenno di commozione nella voce; non era abituata a sentire sua madre farle un complimento, erano molti di più i rimproveri e le sgridate per le bravate che lei e i suoi fratelli avevano combinato.
"Va bene, i tempi sono cambiati, anche troppo per me, però ora dovresti riflettere almeno un po' sul tuo futuro; soprattutto adesso, nelle tue condizioni"
"Ti prometto, nonna, che lo farò"
"È tardi, mama, sarà meglio andare"
La sveglia eruppe nel silenzio della camera da letto col suo fastidioso, squillante trillo, mentre con gli occhi aperti già da qualche minuto la ragazza stava riflettendo, cercando di tenere a mente il più possibile di quello strano sogno; sua nonna aveva ragione, ora le cose erano diverse, doveva rifletterci, forse avrebbe dovuto cambiare qualcosa, anzi sicuramente avrebbe dovuto cambiare qualcosa: avrebbe rinunciato alla missione, nelle sue condizioni non avrebbe mai ottenuto il permesso per andare a rischiare la vita dall'altra parte del mondo. Doveva dirlo a Giulio, ancora non aveva idea di come, ma doveva dirglielo; In fondo, quello che portava in grembo, era anche suo figlio.
Il vento passò ancora una volta tra le fronde della quercia, facendo stormire le foglie ingiallite dall'autunno, mentre lei aspettava; era passato parecchio tempo dall'ultima volta ed attendeva con impazienza che arrivassero, era addirittura in anticipo per non perdere minuti preziosi in loro compagnia: in fondo quella era una giornata speciale.
L'incrocio era deserto da ore, disperso nel bel mezzo della campagna, il silenzio interrotto soltanto dal canto dei corvi e dal gorgoglìo di un canale d'irrigazione. Giunsero dalla strada ad est, con la luce della luna appena alzatasi alle loro spalle, con passo tranquillo e l'aria serena; quando le vide le fece un gesto di saluto e sorrise:
"Ciao! Come state? Tutto bene?"
"Ciao piccola, noi stiamo bene, e tu?" disse la più piccola delle due figure, una donna anziana dalla pelle segnata di innumerevoli rughe, i capelli bianchi raccolti in uno chignon d'altri tempi.
"Nonna, ormai sono una donna, non chiamarmi piccola!"
"Per me resterai sempre la mia piccola" rispose la nonna mostrando un lieve sorriso "il viaggio è stato faticoso, ci sediamo?"
Si accomodarono alla base della quercia dove un piccolo falò ardeva consumando rametti e foglie secche, appoggiando la schiena al grande albero e fissando l'incrocio illuminato dalla luna:
"Allora, tesoro, cosa ci racconti?" Fu l'altra donna a parlare, una signora imponente e dall'aspetto severo.
"Va tutto bene, mamma. Sono a capo di una squadra, lavoro sodo e bene, faccio dalle 10 alle 12 ore, spesso salto anche la pausa pranzo; Io e Giulio stiamo pensando di comprare un appartamento un po' più grande di quello dove stiamo, il mutuo è un bell'impegno ma dovremmo farcela"
"Quando vi sposerete?" chiese la vecchia
"Sposarci? E perché?"
"Il matrimonio è importante" rispose l'altra donna
"Il matrimonio non vale niente, è un'inutile vecchia istituzione" disse la giovane donna
"Bah! Vivi nel peccato!" rispose la nonna, guardandola fissa negli occhi "Il matrimonio è la garanzia di una famiglia stabile e di un ambiente sano per i propri figli! » la sicurezza di avere un uomo a fianco che ti protegga e si occupi di sfamarti, sempre, mentre tu ti occupi della casa e di crescere i bambini. Con un marito non saresti obbligata a lavorare"
"Mama, i tempi sono cambiati" intervenne la donna imponente.
"Anche tu ti sei sposata"
"Sì, perché lo amavo. Ma anche dopo il matrimonio ho continuato a lavorare, perché altrimenti non saremmo mai riusciti a crescere lei e i suoi fratelli, a dare loro le possibilità che noi non abbiamo avuto. E non mi sembra di aver fatto un cattivo lavoro"
"E allora perché dovrei sposarmi?"
"Per rendere il tuo rapporto più solido, per legarlo a te con una promessa indissolubile"
"Sotto la tutela di Nostro Signore" aggiunse la vecchia
"Mama, l'importante è la promessa: che a testimoniare sia un prete o un ufficiale dello stato è lo stesso"
"Il matrimonio è sacro! Lo stato non può intromettersi"
"Ma io non voglio un legame così forte. È una condanna, una prigione... io voglio essere libera!" esclamò la giovane
"Tuo fratello si è sposato!"
"Se lui è scemo, io che ci posso fare?"
"Rispondimi, lo ami il tuo Giulio?"
"Ecco, mamma... beh, sì, credo di sì... a volte litighiamo ma mi pare normale, litigavate spesso anche tu e papà... però, ecco, a volte..."
La luna splendeva nel mezzo di un cielo limpido e stellato, stendendo un velo azzurrino di luce sui campi di grano e trifoglio
"Sei sciupata, tesoro, dovresti lavorare di meno"
"Non posso, mamma, c'è così tanto da fare..."
"Tuo padre ed io non abbiamo rischiato il carcere per vederti lavorare così tanto"
"Ti sei scelta un lavoro non per te, piccola" intervenne la vecchia "Le donne non sono adatte a comandare, non è il loro ruolo"
"E quale sarebbe un lavoro per me, nonna? L'infermiera? La segretaria? La commessa? Non ho studiato e faticato tanto per poi far decidere altri"
"E cosa ci sarebbe di male? Una donna che lavora quanto tempo può dedicare ai suoi figli? O a suo marito? Ho lavorato anch'io quand'ero signorina, sono andata a servizio da una signora di città, mi sono spaccata la schiena a pulire, cucinare e badare alla loro casa, ma appena mi sono sposata ho smesso, perché i miei doveri erano altri. C'era un maggiordomo a dirigerci e non ho mai pensato di poter prendere il suo posto."
"Mama, cos'ha un uomo che una donna non può avere?" rispose la signora dall'aria severa "Quando ero in fabbrica ho scioperato per avere condizioni migliori, giorni di ferie e malattia garantiti, diritti che oggi sembrano ovvi. Suo figlio ha manifestato per il riconoscimento della maternità, ha subito le cariche della polizia, ha affrontato i lacrimogeni per avere un posto di lavoro più sicuro. E per non essere pagato una miseria. Io stessa sono scesa in piazza per reclamare pari diritti alle donne. E non ho mai smesso di lavorare."
"Ma anche tu non hai mai pensato di metterti a capo della fabbrica."
"Vero, ma sia io che lei non abbiamo studiato abbastanza; però ho lottato perché a mia figlia quegli studi non fossero negati, e lei, da genitori operai è diventata dottoressa"
"E io non ho ancora smesso di ringraziarvi per tutti i sacrifici che avete fatto per me" disse la giovane
"Oh Signore Benedetto, ma fare il soldato è un lavoro da uomini! Anche se da ufficiale, rimane comunque un compito per gli uomini"
"Perché, nonna, perché? Non mi manca la capacità di reagire, ne la decisione, ne il coraggio, ne la testa per fare il militare. I tempi sono cambiati, difendere la nazione non è più una prerogativa maschile, e io voglio fare la mia parte"
"Anch'io avrei preferito scegliessi un'altra carriera, ma è la tua vita ed è giusto che sia tu a deciderne le sorti. Io sono orgogliosa di te"
"Grazie mamma" disse la giovane sorpresa, con un accenno di commozione nella voce; non era abituata a sentire sua madre farle un complimento, erano molti di più i rimproveri e le sgridate per le bravate che lei e i suoi fratelli avevano combinato.
"Va bene, i tempi sono cambiati, anche troppo per me, però ora dovresti riflettere almeno un po' sul tuo futuro; soprattutto adesso, nelle tue condizioni"
"Ti prometto, nonna, che lo farò"
"È tardi, mama, sarà meglio andare"
La sveglia eruppe nel silenzio della camera da letto col suo fastidioso, squillante trillo, mentre con gli occhi aperti già da qualche minuto la ragazza stava riflettendo, cercando di tenere a mente il più possibile di quello strano sogno; sua nonna aveva ragione, ora le cose erano diverse, doveva rifletterci, forse avrebbe dovuto cambiare qualcosa, anzi sicuramente avrebbe dovuto cambiare qualcosa: avrebbe rinunciato alla missione, nelle sue condizioni non avrebbe mai ottenuto il permesso per andare a rischiare la vita dall'altra parte del mondo. Doveva dirlo a Giulio, ancora non aveva idea di come, ma doveva dirglielo; In fondo, quello che portava in grembo, era anche suo figlio.
giovedì 8 ottobre 2009
Canto Secondo
Passata la porta mi trovai, d’un tratto,
in un’ampia caverna scura, che il lume ben poco illuminava; per ogni anfratto un’ombra rifletteva, come barlume di paura. Fissai, chiusa la porta, la mia guida che dell’antro le brume, con occhi curiosi, esplorava accorta. Quale posto era quello? Di che inferno era parte quell’ampia grotta torta ed inquietante? Forse qui attorno passavano le anime condannate? Questi quesiti tuttora discerno tra ricordi e vaghe immagini nate allora che la mia mente mantiene; ma al tempo, tra scure nebbie portate nella notte, m’accorsi da orme piene che del gatto le tracce persi. Ratto seguii delle zampe il corso, pene soffrendo per il terrore che sotto a quella volta il cuore t’attanaglia; giunsi greve fino un passaggio rotto nella roccia come piccola faglia. Entro un corridoio angusto il custode attendeva l’animo mio alla soglia; come scavato da talpa che rode di verdure le radici sembrava, talmente stretto che l’avanzare ode non merita, che pure strisciava la guida. Percorso il lungo budello di rocce e massi composto, brillava l’uscio di una fosca luce, tranello temendo la testa sporsi cauto e nebbia marina m’avvolse il collo. La vista della cala rese muto dei lamenti per il tragitto l’animo mio; bianca spiaggia, di flauto le melodie tra le rocce, limo sugli scogli affioranti, splendente tutto colse. Il felino, d’attimo correndo, balzò su una galleggiante barca posta a riva, pronta a salpare, e fissò me con occhio bruciante; altra via non v’era per cui trovare la cava ove Rhas regnava? Non feci in tempo la domanda a formulare, onde enormi travolsero, dispreci pietà, la rada frangendo forti inondavano, e di pinne veci i miei arti fecero; per sorti fauste giunsi al naviglio leggero | che lentamente verso mari aperti
procedeva. Issata sull’albero la vela, dal vento sospinti traccia non v’era più della cala; invero sol acqua si nota, tra i flutti breccia non fanno scogli, ne alghe, ne d’isole all’orizzonte si staglia la roccia; sol onde si perdono in lente fole fin dove l’occhio vede: caddero gocce su vesti già zuppe e mole felina, che sulla prua fiero era posto, da cieli gravidi d’acqua e saette lucenti nel nero. Ore passarono in cerca di lidi nuovi cui approdare, finché un guizzo notai tra i flutti; d’umano vidi una figura con furioso spruzzo nuotare ratto verso il legno nostro, ma preso venne da essere, nel mezzo dell’impresa, di orrida specie, mostro sembiante con coda di pesce, squame coperto, viso deforme, indietro spingeva il dannato; sottili lame ferirono d’un colpo la figura. Con sguardo furioso, come trame spezzando, a me si volse: “Tortura degna vuoi forse fuggire, stolto dannato? Credi che l’anima pura tu abbia? Uscire non potrai”. Colto sprovvisto di difesa, il demone con rabbia al naviglio lanciò l’assalto, ratto saltò per prendermi; ciclone la forza prendendo, con balzo audace il grigio compagno come leone con rapida zampa un braccio capace dei quattro staccò di netto; con soffio minaccioso per l’essere rapace sconfitta annunciò: “Vattene! Il giusto fio, mortale, pagherai per l’ardire tuo.” Così parlò reggendo del graffio il dolore. Altro disturbo all’ire nostro non fu commesso, ma galera imponente, scura, che al progredire tra i flutti, dannati coglieva mera e dannati gettava, lungi vidi navigare l’infinita sua crociera. Infine al viaggio in celati lidi giungemmo ad un isolotto spoglio; il custode per caverna intravidi andare e dietro a lui mi mossi sveglio. |
venerdì 2 ottobre 2009
Canto Primo
Nel mezzo del salon d'una taverna mi ritrovai sul fil d'una spada che sulla morte mia non si discerna. Ora, della vita più si aggrada chi tempo ha per adorarla mesto che nera Signora accoglie rada, e l'animo mio fu molto lesto a rimediare fede per il vuoto che, scuro, l'avrebbe avvolto presto. Corsi per corso celeste ignoto, tra nubi e cieli giunsi ratto e il cuore alla visione è devoto; quel che vidi, sembrare di matto fantasia accade, seppur vero, e di narrare a voi ne faccio fatto. Mi trovai d'un tratto con un cero dinanzi ad un palazzo antico, attraversai di oro e marmo nero il pavimento d'ingresso amico fino ad una porta di fregi adorna; quali gesta narrate non vi dico, mai memoria di allora torna di tali figure così splendenti, di magnifica fattura le corna, di grande perizia gli adunchi denti; di più sfugge al mio intelletto sano. Spinsi l'enorme portale in avanti, leggero come piuma, fu strano, si mosse, lasciando un grande varco che di luce mi inondò. Come soprano la voce supera il coro, dall'arco giunse un profumo invitante, caldo, di arrosto, che mi guidò entro il parco. Tale era la sala che presi baldo oltre l'entrata, adorna di piante, di fiori immersa era, come araldo mi feci avanti, cauto, l'istante in cui vidi una tavola imbandita e cinque scranni fatti per gigante; attorno a tal gioia della vita, trovai assieme gli dei antichi che veneriamo divisi. Sita in fitta discussione, Rhas con occhi crudeli d'un tratto mi vide e d'ira colma, voce possente: "Cosa cerchi? Cosa al nostro cospetto ti attira, misero unto di sì poco cervello? Qual dannato vuoi, che respira nuova vita e peggiore fardello? Chi ti ha guidato fino alla nostra | dimora, che pur mortale non fallo d'ingegno, visitare non osa?" Tra tremiti e paure il lume mostrai, con espressione stupita e tetra gl'immortali volti attorno attirai alla flebile fiamma, che ardeva leggera; come in sogno serrai il cero che così tanto prendeva gli dei riuniti, fino a quando m'accorsi di Faith che rideva: "Giovane mortale, lumi cercando sei giunto a codesto palazzo, il pericolo imprevisto affrontando di non tornare al vivere te avvezzo. Folle o impavido che sia, gli inferni di Rhas vedrai, ma nel tetro pozzo solo non ti lascerò; perché torni una guida esperta avrai al tuo fianco, purché gli dei tutti in questi interni siano d'accordo." Fu così franco il discorso che gli altri commensali a obiezione non diedero banco. Lolt coperta da sottili strali di seta, Ashanna foglie ridente, consenso portarono senza mali, Jaboth guerriero possente di Rhas l'ultima parola aspettava: "Misero stolto, mortale imprudente, che pensi di trovare nella cava dei più oscuri regni che io proteggo? In quale prodigio credi ove grava pianto d'anime morte cui traggo l'immenso potere che possiedo? Qualunque cosa nel regno che reggo tu stia cercando invero non credo la troverai; vai pure, mortale, alle domande risposte non vedo." Terrore colse allo sguardo regale l'animo mio, fermo in quel luogo, l'amaro permesso così brutale lasciato m'aveva senza sfogo al dire mio, che la lingua pare di ghiaccio bruciare come rogo. Aperta fu una porta e stagliare sull'uscio di gatto una figura vidi: "Giunto il tempo per te di andare, giovane umano; Nebbia avrà cura di portarti in salvo tra gli aviti regni di Rhas immortale." L'oscura porta varcai con due passi arditi. |
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