venerdì 23 ottobre 2009

Canto Quarto

Secondi passati immoti, di sogni
popolando con ninfe allegri giochi,
per breve sonno fui steso; ritegni
non ebbi a dormire su freddi solchi
che del luogo erano pavimento.
Ma sollievo ad orrori sì biechi
non v’è; svegliato con colpi cento
di zampa rovescio, tale la forza
da staccare teste, vidi distinto
del fido compagno le zanne. Scorza
dura la pelle, qual buccia di pesca
protegge l’interno, dolore smorza
per nulla, che la visione si offusca.
Ripresa del viandante la forma
migliore, sanato dai danni, losca
camera osservo e desiderio d’arma
volge al pensiero mio, che l’antro cupo
paure antiche richiama; rafferma
l’aria, sospiro non mette, lupo
sembiante il fumo ci avvolge tetro,
solo esso qui è presente, dirupo
profondo d’un nulla evitammo, che entro
la luce del cero l’orlo scorgemmo.
Seguendo del gatto il passo scaltro,
balzando tra crepe, gole passammo,
brecce tra rocce contando, fumose
forme e pennacchi di nebbia cogliemmo
soltanto; memore d’incendi, cose
di tempi ormai passati, l’acre odore
che respiro toglie e lacrime ombrose
fa versare all’animo mio, cuore
ancora non regge tali ricordi,

su tutto regnava. Quanto dolore
costa questo andare per corsi lordi
di fuliggine e braci ardenti? Quale
prezzo sto pagando? Quali balordi
motivi mi hanno spinto del male
traversare l’orribile distesa?
Sava, tua è la colpa e nulla sale
ad onore per quel che vidi; pesa
fardello quella spada, maledetta,
si spezzi come spezzò dell’attesa
la vita mia; mai scalare vetta
senza conoscerne i perigli angusti,
eppure a questa impresa, eri matta,
mi lanciasti; qual curiosa, vesti
spulciando, in bancarelle di mercanti
Nalimensi, del viaggio molesti
consiglieri, di sapere volenti,
foste tu e quell’incantatore vero
che a filosofare tendeva. Menti
fini tale cammino mai avrebbero
proposto! Comunque al danno compiuto
non v’è riparo, della stesa il mero
fumo tutto copriva, senza aiuto
alcuno procedemmo, ne i dannati
disturbare si poteva; di muto
lamento, i volti deformi privati
di vista, percorsi da pinnacoli
grigi che entro e fuori da stipati
corpi corrono, respiri refoli
solo permettono; qual infame
prodezza compirono, che da proli
perverse questa tortura di grame
sementi soffrono? Vedere l’ombra
d’uomo noto soffrire per lame
di fosca natura il dubbio tra membra
ghiacciate non solse. Nel vivere
nostro, della Terribile le labbra
veci per tempo fece, che collere
a Nalim non diedero danno alcuno;
ma, folle corsa, Alarico al potere
tese le mani, non trovando pruno
di frutti provvisto tra vecchie mura,
Karmisia ai propri servigi tribuno
si pose e mai a dolo fu posto cura.
Pensiero non s’ebbe per la sua sorte,
qual misero fato colse e perdura,
quando del cuore giunse la morte;
notare la sua figura tra queste
distese, stupore pose tra aperte
braccia, ma di colloquiare, triste,
non fu concesso tempo; del custode
il passo si fece cauto, viste
tra i fumi di guardiani le code.
Di esile corpo, le braccia possenti
in artigli, lo sguardo corrode
maligno del volere forza, denti
aguzzi come lame completano
il quadro; del pericolo tremanti,

tra due file ci muovemmo, d’un vano
la strada posero; non uno mosse
verso di noi, ne grido volse, strano,
quando alla porta giungemmo. Con rosse
tende a decorare l’entrata, l’antro
passammo guardinghi, nero trasse
che solo il lume di visione metro
fece. D’un tratto con sordo rumore
le ante si chiusero, di travi destro,
colsi coi lobi sinistro stridore.

sabato 17 ottobre 2009

Canto Terzo

Come l’aurora sorge tra i ghiacci,
fulgida, cristalli perenni luce
rifrange d’arcobaleni capricci,
così mi parve fatto, quando il duce
mio in cima alla scala giunse, l’antro.
Quanti gradini calcai non deduce
memoria, che chiocciola stretta dentro
la roccia seguimmo per ore; le volte
complesse, fin dalla cava di vetro,
osservai con orrore per le molte
pene che alle anime vengono imposte.
Del cero la fiamma accesa, alte
colonne di ghiaccio e stanze vaste
di colori inondavano lo spazio,
come farfalle d’estate le coste
di Angamor riempiono. Artifizio
di natura, per questi ambienti
spediti procedemmo senz’ozio,
che il gelo battere faceva i denti.
Curioso al volgere delle sale,
come gatto che esplora bastimenti
novelli, la fattura senza male
di quel luogo osservai da vicino;
narrare come posso del ferale
ambiente lo strazio che il destino
pose in cuor mio, Lhyra te invoco
a tenere la penna almeno sino
al concludere novella del loco!
Figura d’elfo colsi nella stele
di ghiaccio chiusa, occhi col fuoco
ancor vivo fissarono, fiele
stillante, la mia sagoma; subito
ritrassi d’un passo e come di tele
svelati i segreti, di kender cito
le forme, e orchetti, e nani in teche
cristalline scorsi. Per quale sito
giunsi non ricordo, di fronte a fosche
stanze fermai il mio fuggire, la guida
lasciata dietro alle sembianze losche;
come del vento il sussurrare fida
dei cantori, del lazzo e del deriso
viene fatto zimbello, così rida
chi alla mia verità si ponga inviso.
Di corpo umano la sostanza nota
pareva in quel blocco incompleto; liso
non sembrava dal tempo che ruota
senza sosta ed il volto dalla pena
sua resi libero: “Quale sorte immota
spinge un Dragone a venire sirena
di vita per l’alma di Federico
Squarcialupi? Dannato tu sei, lena
cerchi per le tue colpe? No, io dico,
vivo rimani che di corpo odore
l’aria assume.” Al cogliere aulico
del condottiero il nome, l’onore
ribelle ancora lo acclama, d’un tratto
mi trovai due passi indietro; dolore
non colsi su quell’uomo trafitto
dai veleni di Treon e il motivo
gli chiesi di questa tortura: “Atto
non feci, ne patto accettai vivo,
che per tale prigione mi condanni.
Nessun giudizio di reo viene privo
di prove, eppure emesse perenni
sentenze furono per molti. Come
giunsi in questo blocco non so, insonni
non fummo, fin quando il gelo nome
non prese. Questo solo inferno atroce,
pungente, io non osservai; quali some,
nel fuoco camminammo, qual croce
pesa la pena sulle nostre spalle;
quale motivo ti spinge alla foce
di questo corso?” Il lume di frolle
cangianti riempì la cava, fronte
faceva al buio con riflessi mille
e di Federico il quesito, errante,
rispose. Poi ratto riprese: “Breve
non è la tua via, pazzo incosciente,
che credi di ottenere? delle leve
degli Dei il vero non puoi sapere,
ne affrontare la loro ira. La neve
si scioglie in acqua per loro volere,
per loro capriccio si combattono
guerre; oltre quest’antro giacere
del fuoco, aspra pena, patrono,
ed ancora per il fumo noioso
dovrai passare; dell’acqua, non sono
certo, edotto già sei, e, curioso,
del ghiaccio la pena non sei ignaro.
Altro ho da dirti.” Giunse doloso
morso dal mio fido guardiano, raro
attacco a punire il mio andare solo:
“Attento, mortale, castigo amaro
ti spetta, da Rhas immortale.” Volo
non feci grande, del gatto la forma
seguendo dappresso, su cigolo
sospetto del pavimento, conferma
dell’ultimo dire appresi; spezzato
fu il ghiaccio che il peso poggiava orma,
e caddi nell’abisso senza fiato.

lunedì 12 ottobre 2009

Ecate

Questo racconto avrebbe dovuto partecipare al quinto concorso letterario BC, cosa che però non è avvenuta per una mera questione di tempo: quando decisi di scriverlo il termine per la consegna dei racconti era scaduto... 


Il vento passò ancora una volta tra le fronde della quercia, facendo stormire le foglie ingiallite dall'autunno, mentre lei aspettava; era passato parecchio tempo dall'ultima volta ed attendeva con impazienza che arrivassero, era addirittura in anticipo per non perdere minuti preziosi in loro compagnia: in fondo quella era una giornata speciale.

L'incrocio era deserto da ore, disperso nel bel mezzo della campagna, il silenzio interrotto soltanto dal canto dei corvi e dal gorgoglìo di un canale d'irrigazione. Giunsero dalla strada ad est, con la luce della luna appena alzatasi alle loro spalle, con passo tranquillo e l'aria serena; quando le vide le fece un gesto di saluto e sorrise:
"Ciao! Come state? Tutto bene?"
 "Ciao piccola, noi stiamo bene, e tu?" disse la più piccola delle due figure, una donna anziana dalla pelle segnata di innumerevoli rughe, i capelli bianchi raccolti in uno chignon d'altri tempi.
"Nonna, ormai sono una donna, non chiamarmi piccola!"
"Per me resterai sempre la mia piccola" rispose la nonna mostrando un lieve sorriso "il viaggio è stato faticoso, ci sediamo?"

Si accomodarono alla base della quercia  dove un piccolo falò ardeva consumando rametti e foglie secche, appoggiando la schiena al grande albero e fissando l'incrocio illuminato dalla luna:
"Allora, tesoro, cosa ci racconti?" Fu l'altra donna a parlare, una signora imponente e dall'aspetto severo.
"Va tutto bene, mamma. Sono a capo di una squadra, lavoro sodo e bene, faccio dalle 10 alle 12 ore, spesso salto anche la pausa pranzo; Io e Giulio stiamo pensando di comprare un appartamento un po' più grande di quello dove stiamo, il mutuo è un bell'impegno ma dovremmo farcela"
"Quando vi sposerete?" chiese la vecchia
"Sposarci? E perché?"
"Il matrimonio è importante" rispose l'altra donna
"Il matrimonio non vale niente, è un'inutile vecchia istituzione" disse la giovane donna
"Bah! Vivi nel peccato!" rispose la nonna, guardandola fissa negli occhi "Il matrimonio è la garanzia di una famiglia stabile e di un ambiente sano per i propri figli! » la sicurezza di avere un uomo a fianco che ti protegga e si occupi di sfamarti, sempre, mentre tu ti occupi della casa e di crescere i bambini. Con un marito non saresti obbligata a lavorare"
"Mama, i tempi sono cambiati" intervenne la donna imponente.
"Anche tu ti sei sposata"
"Sì, perché lo amavo. Ma anche dopo il matrimonio ho continuato a lavorare, perché altrimenti non saremmo mai riusciti a crescere lei e i suoi fratelli, a dare loro le possibilità che noi non abbiamo avuto. E non mi sembra di aver fatto un cattivo lavoro"
"E allora perché dovrei sposarmi?"
"Per rendere il tuo rapporto più solido, per legarlo a te con una promessa indissolubile"
"Sotto la tutela di Nostro Signore" aggiunse la vecchia
"Mama, l'importante è la promessa: che a testimoniare sia un prete o un ufficiale dello stato è lo stesso"
"Il matrimonio è sacro! Lo stato non può intromettersi"
"Ma io non voglio un legame così forte. È una condanna, una prigione... io voglio essere libera!" esclamò la giovane
"Tuo fratello si è sposato!"
"Se lui è scemo, io che ci posso fare?"
"Rispondimi, lo ami il tuo Giulio?"
"Ecco, mamma... beh, sì, credo di sì... a volte litighiamo ma mi pare normale, litigavate spesso anche tu e papà... però, ecco, a volte..."

La luna splendeva nel mezzo di un cielo limpido e stellato, stendendo un velo azzurrino di luce sui campi di grano e trifoglio
"Sei sciupata, tesoro, dovresti lavorare di meno"
"Non posso, mamma, c'è così tanto da fare..."
"Tuo padre ed io non abbiamo rischiato il carcere per vederti lavorare così tanto"
"Ti sei scelta un lavoro non per te, piccola" intervenne la vecchia "Le donne non sono adatte a comandare, non è il loro ruolo"
"E quale sarebbe un lavoro per me, nonna? L'infermiera? La segretaria? La commessa? Non ho studiato e faticato tanto per poi far decidere altri"
 "E cosa ci sarebbe di male? Una donna che lavora quanto tempo può dedicare ai suoi figli? O a suo marito? Ho lavorato anch'io quand'ero signorina, sono andata a servizio da una signora di città, mi sono spaccata la schiena a pulire, cucinare e badare alla loro casa, ma appena mi sono sposata ho smesso, perché i miei doveri erano altri. C'era un maggiordomo a dirigerci e non ho mai pensato di poter prendere il suo posto."
"Mama, cos'ha un uomo che una donna non può avere?" rispose la signora dall'aria severa "Quando ero in fabbrica ho scioperato per avere condizioni migliori, giorni di ferie e malattia garantiti, diritti che oggi sembrano ovvi. Suo figlio ha manifestato per il riconoscimento della maternità, ha subito le cariche della polizia, ha affrontato i lacrimogeni per avere un posto di lavoro più sicuro. E per non essere pagato una miseria. Io stessa sono scesa in piazza per reclamare pari diritti alle donne. E non ho mai smesso di lavorare."
"Ma anche tu non hai mai pensato di metterti a capo della fabbrica."
"Vero, ma sia io che lei non abbiamo studiato abbastanza; però ho lottato perché a mia figlia quegli studi non fossero negati, e lei, da genitori operai è diventata dottoressa"
"E io non ho ancora smesso di ringraziarvi per tutti i sacrifici che avete fatto per me" disse la giovane
"Oh Signore Benedetto, ma fare il soldato è un lavoro da uomini! Anche se da ufficiale, rimane comunque un compito per gli uomini"
"Perché, nonna, perché? Non mi manca la capacità di reagire, ne la decisione, ne il coraggio, ne la testa per fare il militare. I tempi sono cambiati, difendere la nazione non è più una prerogativa maschile, e io voglio fare la mia parte"
"Anch'io avrei preferito scegliessi un'altra carriera, ma è la tua vita ed è giusto che sia tu a deciderne le sorti. Io sono orgogliosa di te"
"Grazie mamma" disse la giovane sorpresa, con un accenno di commozione nella voce; non era abituata a sentire sua madre farle un complimento, erano molti di più i rimproveri e le sgridate per le bravate che lei e i suoi fratelli avevano combinato.
"Va bene, i tempi sono cambiati, anche troppo per me, però ora dovresti riflettere almeno un po' sul tuo futuro; soprattutto adesso, nelle tue condizioni"
"Ti prometto, nonna, che lo farò"
"È tardi, mama, sarà meglio andare"




La sveglia eruppe nel silenzio della camera da letto col suo fastidioso, squillante trillo, mentre con gli occhi aperti già da qualche minuto la ragazza stava riflettendo, cercando di tenere a mente il più possibile di quello strano sogno; sua nonna aveva ragione, ora le cose erano diverse, doveva rifletterci, forse avrebbe dovuto cambiare qualcosa, anzi sicuramente avrebbe dovuto cambiare qualcosa: avrebbe rinunciato alla missione, nelle sue condizioni non avrebbe mai ottenuto il permesso per andare a rischiare la vita dall'altra parte del mondo. Doveva dirlo a Giulio, ancora non aveva idea di come, ma doveva dirglielo; In fondo, quello che portava in grembo, era anche suo figlio.

giovedì 8 ottobre 2009

Canto Secondo

Passata la porta mi trovai, d’un tratto,

in un’ampia caverna scura, che il lume
ben poco illuminava; per ogni anfratto
un’ombra rifletteva, come barlume
di paura. Fissai, chiusa la porta,
la mia guida che dell’antro le brume,
con occhi curiosi, esplorava accorta.
Quale posto era quello? Di che inferno
era parte quell’ampia grotta torta
ed inquietante? Forse qui attorno
passavano le anime condannate?
Questi quesiti tuttora discerno
tra ricordi e vaghe immagini nate
allora che la mia mente mantiene;
ma al tempo, tra scure nebbie portate
nella notte, m’accorsi da orme piene
che del gatto le tracce persi. Ratto
seguii delle zampe il corso, pene
soffrendo per il terrore che sotto
a quella volta il cuore t’attanaglia;
giunsi greve fino un passaggio rotto
nella roccia come piccola faglia.
Entro un corridoio angusto il custode
attendeva l’animo mio alla soglia;
come scavato da talpa che rode
di verdure le radici sembrava,
talmente stretto che l’avanzare ode
non merita, che pure strisciava 

la guida. Percorso il lungo budello
di rocce e massi composto, brillava
l’uscio di una fosca luce, tranello
temendo la testa sporsi cauto
e nebbia marina m’avvolse il collo.
La vista della cala rese muto
dei lamenti per il tragitto l’animo
mio; bianca spiaggia, di flauto
le melodie tra le rocce, limo
sugli scogli affioranti, splendente
tutto colse. Il felino, d’attimo
correndo, balzò su una galleggiante
barca posta a riva, pronta a salpare,
e fissò me con occhio bruciante;
altra via non v’era per cui trovare
la cava ove Rhas regnava? Non feci
in tempo la domanda a formulare,
onde enormi travolsero, dispreci
pietà, la rada frangendo forti
inondavano, e di pinne veci
i miei arti fecero; per sorti
fauste giunsi al naviglio leggero
che lentamente verso mari aperti

procedeva. Issata sull’albero
la vela, dal vento sospinti traccia
non v’era più della cala; invero
sol acqua si nota, tra i flutti breccia
non fanno scogli, ne alghe, ne d’isole
all’orizzonte si staglia la roccia;
sol onde si perdono in lente fole
fin dove l’occhio vede: caddero
gocce su vesti già zuppe e mole
felina, che sulla prua fiero
era posto, da cieli gravidi
d’acqua e saette lucenti nel nero.
Ore passarono in cerca di lidi
nuovi cui approdare, finché un guizzo
notai tra i flutti; d’umano vidi
una figura con furioso spruzzo
nuotare ratto verso il legno nostro,
ma preso venne da essere, nel mezzo
dell’impresa, di orrida specie, mostro
sembiante con coda di pesce, squame
coperto, viso deforme, indietro
spingeva il dannato; sottili lame
ferirono d’un colpo la figura.
Con sguardo furioso, come trame
spezzando, a me si volse: “Tortura
degna vuoi forse fuggire, stolto
dannato? Credi che l’anima pura
tu abbia? Uscire non potrai”. Colto
sprovvisto di difesa, il demone
con rabbia al naviglio lanciò l’assalto,
ratto saltò per prendermi; ciclone
la forza prendendo, con balzo audace
il grigio compagno come leone
con rapida zampa un braccio capace
dei quattro staccò di netto; con soffio
minaccioso per l’essere rapace
sconfitta annunciò: “Vattene! Il giusto fio,
mortale, pagherai per l’ardire
tuo.” Così parlò reggendo del graffio
il dolore. Altro disturbo all’ire
nostro non fu commesso, ma galera
imponente, scura, che al progredire
tra i flutti, dannati coglieva mera
e dannati gettava, lungi vidi
navigare l’infinita sua crociera.
Infine al viaggio in celati lidi
giungemmo ad un isolotto spoglio;
il custode per caverna intravidi
andare e dietro a lui mi mossi sveglio.

venerdì 2 ottobre 2009

Canto Primo

Nel mezzo del salon d'una taverna
mi ritrovai sul fil d'una spada
che sulla morte mia non si discerna.
Ora, della vita più si aggrada
chi tempo ha per adorarla mesto
che nera Signora accoglie rada,
e l'animo mio fu molto lesto
a rimediare fede per il vuoto
che, scuro, l'avrebbe avvolto presto.
Corsi per corso celeste ignoto,
tra nubi e cieli giunsi ratto
e il cuore alla visione è devoto;
quel che vidi, sembrare di matto
fantasia accade, seppur vero,
e di narrare a voi ne faccio fatto.
Mi trovai d'un tratto con un cero
dinanzi ad un palazzo antico,
attraversai di oro e marmo nero
il pavimento d'ingresso amico
fino ad una porta di fregi adorna;
quali gesta narrate non vi dico,
mai memoria di allora torna
di tali figure così splendenti,
di magnifica fattura le corna,
di grande perizia gli adunchi denti;
di più sfugge al mio intelletto sano.
Spinsi l'enorme portale in avanti,
leggero come piuma, fu strano,
si mosse, lasciando un grande varco
che di luce mi inondò. Come soprano
la voce supera il coro, dall'arco
giunse un profumo invitante, caldo,
di arrosto, che mi guidò entro il parco.
Tale era la sala che presi baldo
oltre l'entrata, adorna di piante,
di fiori immersa era, come araldo
mi feci avanti, cauto, l'istante
in cui vidi una tavola imbandita
e cinque scranni fatti per gigante;
attorno a tal gioia della vita,
trovai assieme gli dei antichi
che veneriamo divisi. Sita
in fitta discussione, Rhas con occhi
crudeli d'un tratto mi vide e d'ira
colma, voce possente: "Cosa cerchi?
Cosa al nostro cospetto ti attira,
misero unto di sì poco cervello?
Qual dannato vuoi, che respira
nuova vita e peggiore fardello?
Chi ti ha guidato fino alla nostra
dimora, che pur mortale non fallo
d'ingegno, visitare non osa?" Tra
tremiti e paure il lume mostrai,
con espressione stupita e tetra
gl'immortali volti attorno attirai
alla flebile fiamma, che ardeva
leggera; come in sogno serrai
il cero che così tanto prendeva

gli dei riuniti, fino a quando
m'accorsi di Faith che rideva:
"Giovane mortale, lumi cercando

sei giunto a codesto palazzo,
il pericolo imprevisto affrontando
di non tornare al vivere te avvezzo.
Folle o impavido che sia, gli inferni
di Rhas vedrai, ma nel tetro pozzo
solo non ti lascerò; perché torni
una guida esperta avrai al tuo fianco,
purché gli dei tutti in questi interni
siano d'accordo." Fu così franco
il discorso che gli altri commensali
a obiezione non diedero banco.
Lolt coperta da sottili strali
di seta, Ashanna foglie ridente,
consenso portarono senza mali,
Jaboth guerriero possente
di Rhas l'ultima parola aspettava:
"Misero stolto, mortale imprudente,
che pensi di trovare nella cava
dei più oscuri regni che io proteggo?
In quale prodigio credi ove grava
pianto d'anime morte cui traggo
l'immenso potere che possiedo?
Qualunque cosa nel regno che reggo
tu stia cercando invero non credo
la troverai; vai pure, mortale,
alle domande risposte non vedo."
Terrore colse allo sguardo regale
l'animo mio, fermo in quel luogo,
l'amaro permesso così brutale
lasciato m'aveva senza sfogo
al dire mio, che la lingua pare
di ghiaccio bruciare come rogo.
Aperta fu una porta e stagliare
sull'uscio di gatto una figura
vidi: "Giunto il tempo per te di andare,
giovane umano; Nebbia avrà cura
di portarti in salvo tra gli aviti
regni di Rhas immortale." L'oscura
porta varcai con due passi arditi.