lunedì 26 gennaio 2009

Volata

“20 a 17! Finita.”
“Che dite, ne facciamo un’altra?”
Una dozzina di sguardi si alzano verso il cielo su cui si stanno addensando nubi nere cariche di pioggia; il temporale di fine agosto preannunciato dal meteo sta arrivando a porre fine a quest’afosa estate durata più del dovuto.
“Ho idea di no. Io vado. Ci vediamo settimana prossima.”
Saluto i miei compagni di gioco di questo campetto da basket, dall’altra parte della Metropoli Nebbiosa rispetto a casa mia; con una breve rincorsa salgo in sella e mi avvio lungo viale Sarca, mentre il vento comincia a soffiare sempre più impetuoso: il sole, finora implacabile, comincia a impallidire. Meglio non perder tempo.
Passo in viale Zara pedalando a più non posso, nella speranza di tenere la tempesta dietro di me, attraverso vie e piazze sfrecciando alla massima velocità permessa dai miei muscoli affaticati, dentro di me prego che il semaforo in fondo al ponte di Carlo Farini mi sia amico.
É rosso!
Non posso fermarmi.
Non posso fermarmi.
Non posso fermarmi.
Come un proiettile mi lancio per la discesa, svoltando a destra per il Monumentale, inseguito dall’ombra sempre più cupa di tonnellate d’acqua pronte a riversarsi su questa città arsa dalla calura, il pavè di via Procaccini è così sconnesso che mi costringe a rallentare un po’ l’andatura; appena immesso nel controviale di corso Sempione mi sprono per un’altra accelerata: l’asfalto scorre sotto le ruote rapido, il sole, seppur pallido, resiste all’inevitabile avanzata di un cielo nero come la pece attraversato da lampi bluastri. La fatica delle ore giocate sotto il sole rovente comincia a farsi sentire, le gambe accumulano acido lattico e ogni giro di pedale diventa sempre più difficoltoso, ma non posso cedere, il vento mi spinge quasi furente mentre i contorni delle ombre svaniscono intorno a me; in piazza Napoli un semaforo mi costringe ad una sosta, preziosi secondi scorrono nell’attesa del verde. Qualcosa mi colpisce sulla testa, qualcosa di freddo e bagnato; gocce di pioggia qui e là cominciano a colpire l’asfalto e le poche auto parcheggiate lungo i marciapiedi; ai miei occhi il ponte di Carlo Troya sembra il passo del Gavia, inespugnabile, forse dovrei cercare un riparo e lasciar sfogare la tempesta, forse... Ma dove? In questo agosto fatto di marciapiedi sciolti, di carrozzerie arroventate, di tram deserti, le vie appena fuori dal centro non sono altro che un susseguirsi di portoni chiusi e serrande abbassate, non un bar, non un portone dove ripararsi: non c’è scelta.
Al verde imprimo tutta la potenza che posso esprimere sui pedali, cercando una velocità che mai ho raggiunto, nella speranza che lo slancio mi aiuti a superare l’impervia salita, senza rendermene conto scollino dal ponte pedalando come se non ci fosse un domani, con le gocce di pioggia che cadono dietro di me, mastini che per un soffio hanno mancato la preda. Rapidamente percorro viale Cassala e viale Liguria prima di svoltare in Ascanio Sforza, curvando in piega come un motociclista, il pedale sfrigola sull’asfalto ruvido della curva scaturendo qualche scintilla; la ruota dietro scivola, forse mi sono piegato troppo, non può tenere.
Non posso cadere adesso, ancora un istante, chiudo la curva, tieni, dai, tieni, ti prego, ti prego, ti prego.

Un attimo dopo percorro la via costeggiata dal Naviglio Pavese mentre il vento si fa sempre più impetuoso e minaccioso; giunto al mio portone copro la bici col suo telo impermeabile e percorro le scale. Sono le 17 e 14, 59 minuti dopo la mia partenza dal campetto. Allo scoccare del quarto d’ora la grandine tempesta sul tetto del mio palazzo.