mercoledì 30 dicembre 2009

L'arrivo

- Li hai fatti infuriare - disse Luisa, sdraiata sul suo letto.
- Quel babbuino si è preso una libertà di troppo, dovevo dargli una lezione. -
- Non era sufficiente riprendersi i biscotti? Voglio dire, l’hai pestato a sangue! -
- Non avrebbe capito… Invece così ha imparato a temerci - disse, mentre con calma si toglieva i vestiti impolverati; Luisa era una delle sue migliori amiche, e l’unica che aveva la possibilità e i giorni per poterla accompagnare in quel viaggio: l’aveva conosciuta qualche mese dopo il suo ritorno in Italia, 6 anni fa, quando aveva cominciato a frequentare un pub, era la prima volta che facevano un viaggio insieme.
- Avresti dovuto vedere le loro facce… - riprese Luisa, mentre sfogliava una rivista di moda - Spero che questa tua bravata non ci costi la vacanza. Se l’ambasciatore viene a sapere cos’hai combinato ci rip… -
- L’ambasciatore non può farci nulla, le nostre guide non diranno nemmeno una parola. Mi faccio una doccia -
- Ok -


L’aereo era atterrato da una decina di minuti, quando finalmente i portelloni si aprirono e i passeggeri cominciarono ad assaporare la calda atmosfera africana dell’aeroporto internazionale di Nairobi. Dopo anni di attesa avrebbe rimesso piede su quelle terre, avrebbe ricalcato quella porzione di mondo in cui aveva lasciato così tanto di se stessa e che l’aveva profondamente cambiata; ci volle una mezz’ora prima che riuscisse a recuperare le valigie, non pensava di essere attesa all’uscita; un uomo in completo blu scuro, nonostante il caldo torrido, le venne incontro – La signora De Simone? – chiese gentilmente.
- Sì, sono io. - rispose
- Può cortesemente seguirmi? L’ambasciatore vorrebbe parlarle -
- Con me? Non capisco, spero non ci siano problemi con il mio visto -
- Non si preoccupi, credo che voglia soltanto scambiare due parole - rispose l’uomo sorridendole - non le faremo perdere molto tempo; se necessario l’accompagneremo noi al resort in cui ha prenotato. -
- E la mia amica? Per lei è la prima volta, non vorrei si perdesse. -
- Può accompagnarci. -
Non poteva immaginare un inizio peggiore per la sua vacanza, nonostante gli anni passati il suo nome all’interno dell’ambasciata era ancora ben noto, ed evidentemente il suo ritorno in Africa aveva destato preoccupazione. Che avessero intuito le sue intenzioni? Negarsi avrebbe peggiorato la situazione.
- Va bene, mi faccia strada - rispose con voce calma.


Con gli occhi chiusi assaporava l’acqua calda che cadeva sul suo corpo nudo, lasciando che i muscoli si sciogliessero dalla tensione del lungo viaggio, scorrendo rapida sulla sua pelle abbronzata.


L’ufficio dell’ambasciatore era luminoso ed inondato dal sole, schermato soltanto da alcune leggere tende di lino bianco; Il diplomatico, un uomo robusto sulla cinquantina, si trovava seduto alla sua scrivania di fronte ad un fascicolo quando entrò nella stanza.
- Benvenuta signora De Simone, si accomodi, grazie - disse l’uomo con un sorriso - mi scusi se l’ho fatta venire fin qui, non ho intenzione di farle perdere del tempo. Vorrei porle una domanda, posso? -
- Prego -
- Cosa è venuta a fare in Kenya? -
- Una semplice vacanza… mi manca tantissimo l’Africa e volevo tornare a godermi quest’aria e gli stupendi panorami della savana - Rispose con un velato sorriso negli occhi; rivelare il vero motivo di quel viaggio avrebbe protratto la sua permanenza presso l'ambasciata.
- Mi auguro che sia così… Il governo locale quando ha visto la sua richiesta per il visto si è allarmato; qui davanti a me ho il suo fascicolo, ne ha combinati di guai allora… -
- Allora non avevo scelta -
- Davvero? Qui leggo che… -
- Ricordo esattamente cosa feci e come ho vissuto anni fa, ma non sono qui per rivivere quei giorni. - Disse con forza; il sorriso che le aveva increspato le labbra era sparito, lasciando trapelare una forte rabbia. Non poteva permettere all'ambasciata, o alla polizia locale di intromettersi nei suoi progetti.
- Eppure ha prenotato una camera di un resort dell’area in cui fu trovata 6 anni fa, giusto? -
- Sì, e con questo? Sono posti meravigliosi di cui riserbo un ricordo splendido, voglio solo rivederli. - Mentì con decisione.
- Spero che sia come lei sostiene, Signora - disse l’ambasciatore dopo qualche attimo di silenzio - la prego di non fare stupidaggini, non vorrei trovarmi costretto ad interrompere la sua vacanza. -
Non era sicura di aver convinto il diplomatico delle sue innocenti intenzioni, ma per lo meno quell'inconveniente era finito e poteva partire per la meta finale del viaggio.
- Non si preoccupi, è solo una normale vacanza - rispose la signora, con un lieve sorriso - ora, ambasciatore, se non le dispiace… -


- Ma cos’hai sulla schiena? - La voce di Luisa la fece sussultare, riportandola con la mente al piccolo bagno e alla doccia, che chiuse.
- Nulla di che, è solo un ricordo di un vecchio amico - disse con un sorriso.
- Che brutta cicatrice... bei ricordi che ti lasciano i tuoi amici, Franci… non era meglio una fotografia? -
Una leggera risata uscì dalle labbra di Francesca.

mercoledì 18 novembre 2009

Uno Strano Incontro

Il sole era un'enorme disco rosso che lentamente calava oltre l'orizzonte, ricoprendo la savana con la sua luce cremisi; i fuoristrada erano fermi sul bordo della strada sterrata per permettere al carico di turisti europei un momento mozzafiato da fermare con la mente e una macchina fotografica, prima di giungere al villaggio da 5 stelle sperduto nella natura africana che li avrebbe accolti per quei pochi giorni di vacanza, mentre intorno a loro la natura continuava a muoversi come se la loro presenza fosse insignificante... eppure non si sentiva tranquilla.
I conducenti si erano fermati vicino ad un numeroso clan di babbuini, alcuni dei quali gironzolavano attorno alle macchine con disinvoltura, quasi fossero elementi abituali del loro habitat, nonostante il pesante odore di gasolio e metallo che sicuramente i loro nasi captavano; si muovevano con calma, da padroni di quel lembo di terra, ficcando lo sguardo negli abitacoli e fiutando l'aria, scambiandosi ogni tanto un verso. Qualcosa li attirava sempre più vicini ai grandi mezzi, qualcosa che per loro doveva essere interessante.
Non le ci volle molto per capire a cosa le scimmie erano interessate: Il signor Schöll, un placido, tranquillo e cortese pensionato tedesco proveniente da Colonia, teneva di fronte a sé aperta una piccola scatola di biscotti al cioccolato, scatola che prontamente un giovane babbuino maschio aveva preso sotto gli occhi stupiti dell'anziano; ci volle un attimo prima che la bianca mano grassoccia scattasse verso le zampe scure che stringevano quel piccolo, goloso tesoro e lo strappassero con forza per restituirlo al legittimo proprietario: il babbuino, in tutta risposta, snudò le lunghe zanne in un minaccioso sorriso.


Non se lo era aspettato, non era previsto, di solito una volta mostrati i potenti canini, odoravano di paura, e cedevano qualsiasi cosa gli avessero conteso. Invece era stato colpito, in faccia, un colpo potente e deciso che l'aveva steso nella polvere; aveva avuto bisogno di qualche momento per riprendersi, il male al naso era forte e caldo, la rabbia incontenibile, quell'umano femmina lo aveva colpito e ora era lì in piedi di fronte a lui, impedendogli di raggiungere la fonte di quel profumo dolce, indizio di uno di quei cibi dolci che gli umani a volte portano con sé: non poteva permettere a quella fragile presenza di opporsi al suo desiderio, non poteva permetterle di umiliarlo di fronte a tante femmine e a tanti rivali, a tanti anziani che presto avrebbe battuto.


Il babbuino caricò a testa bassa urlando tutta la sua rabbia, inconscio di quello che lo aspettava: lo colpì di nuovo sul muso, proiettando la gamba destra avanti a lei con uno scatto, nel momento stesso in cui la scimmia balzò con l'intento di gettarla a terra; volò all'indietro per qualche metro prima di atterrare rovinosamente sul suolo polveroso.
Era eccitata. Quanto tempo era passato dall'ultima volta! L'adrenalina le scorreva in tutto il corpo come impazzita, respirava e assaporava a pieni polmoni quell'aria così carica di tensione, quella tensione che in tutti quegli anni le era mancata, di cui aveva odorato un surrogato solo nelle palestre di arti marziali che aveva frequentato per imparare e migliorarsi, in attesa di quel momento. Il suo avversario era ancora a terra, vivo, che si torceva dal dolore tenendosi il muso fracassato tra le mani; era soddisfatta dei suoi anfibi rinforzati, comprati ad un mercatino di rimesse dell'esercito. "Alzati! avanti, alzati!" pensò con furia, presa dall'inebriante gioia del combattimento "Alzati da terra e combatti! Bravo, così, carica ancora a testa bassa, assaltami, vieni a prenderle ancora!"


Il babbuino era di nuovo in piedi, gli occhi iniettati d'odio, il muso sanguinante gocciolava sulla pelliccia impolverata; ringhiò ancora mostrando tre affilati canini, prima di lanciarsi nuovamente all'attacco di quella donna che lo stava umiliando di fronte a tutto il clan; d'improvviso scartò di lato per poi balzarle addosso, per coglierla di sorpresa, ma lei fu rapida a spostarsi. Con il braccio sinistro lo cinse attorno al collo, bloccandogli la testa col corpo mentre rapidamente arretrava verso il portellone della jeep; sfruttando l'impeto della carica fece sbattere la bestia contro l'acciaio della grande macchina. Ci volle qualche momento prima che il babbuino, stordito, cadesse a terra sconfitto.  Ma la sua attenzione fu attratta da un'altra figura.


 - La prossima volta, chiedi per favore - sussurrò la donna all'orecchio dello sconfitto, mentre con delicatezza appoggiava un biscotto del signor Schöll sulle sue labbra; con calma si diresse verso l'ombra di un albero dove un vecchio babbuino stazionava con aria vacua: si sedette di fronte a lui e gli porse la scatola, da cui la scimmia prese un biscotto.
 - È forte, irruento, prepotente e stupido... mi ricorda qualcuno, per caso è uno dei tuoi figli? - disse la donna mentre il babbuino si mise in bocca il dolce - Come stai, Tre Zanne? Ti vedo in forma e a quanto pare hai fatto carriera - il babbuino sorrise, mostrando tre lunghi ed affilati canini, ed un quarto spezzato quasi alla radice.
 - Anche quel tuo figlio ora ne ha soltanto tre... prenderà il tuo posto, un giorno... lui come sta? C'è ancora? Se puoi, fagli sapere che sono tornata, in nome della nostra vecchia inimicizia -


Il babbuino prese un altro biscotto, prima che la donna si allontanasse richiamata ai fuoristrada dalle guide nere di rabbia per lo spettacolo proposto.

giovedì 5 novembre 2009

Canto Quinto

Quale strada era per me destinata?
Rispondere non saprei, che l’unica

corsa al mondo mortale era bloccata.
Ma del gatto la coda rivendica
la mia attenzione al nuovo ambiente,
che la fiamma del cero nemica

si pose all’ombre, vittoria mancante.
Mossi due passi e su scivolo liscio
caddi d’improvviso, che per levante
piegava in stretta curva; come fascio

che corre su ruscelli per giungere
alla legnaia, così parvi, straccio,

al fondo della scesa che tenere

dello stomaco il contenuto impresa
ardua rimase. Del corpo le sfere
riprese, con occhi sognanti, tesa

la mano per aiutare il compagno,

del nuovo antro visione fu presa:
alte colonne di fiamme, magno
splendore, sostenevano la volta

bruciante, ignei muri disegno

tortuoso all’arena, come folta

foresta, intrecciavano; di picchi,
massi e ceneri nere per sciolta

materia era formata, da fuochi

d’eterna durata, il territorio.
Come gran forno per d’argilla bricchi,
che mai spegnersi deve, desiderio
d’acqua induce al manovale costretto
alla sua bocca, così pressante rio
la corrente d’aria fece ratto
ricercare di questo inferno uscita.
Col custode tra le mie braccia stretto,
fiamme crepitare da fiorita
fessura d’uso era, per labirinto
ardente il cammino presi. Bandita
ogni memoria d’incendio, qual canto
di sirena d’affetto privo, pire
aggirando e corridoi, affranto,
seguendo per lunghi tratti, dire
non saprei quale breccia intrapresi
che colonna di penitenti l’ire
incrociai. Da grandi croci offesi
di acciaio rovente, che mai stempera
in questa fornace, su spalle pesi
opprimenti trascinano; libera
frusta schiocca su schiene nude,
dei pellegrini il passo alla lettera
comanda; degli aguzzini, per rude
violenza creati, le sembianze
non descrivo, che tali viste, crude,
al mio terrore abboccare di lenze,
come storione con alice s’inganna.
Volgendo gli occhi per cogliere assenze,
salvo fui dal loro nerbo, madonna
vidi, per poco non svenni, che fato
diverso credevo compiuto; zanna
di lupo e d’orso la mole fermato
giammai l’impeto della sua carica,
tale da sembrare dardo scagliato
al cuore del bersaglio, stoica
nel difendere dei clienti merci
e vita, dura maestra, pratica
d’ogni arma, occhi zaffiri, perderci
ancora notte volontà affiora.
Sorpresa colse lo spirito, torci
membra, volto sfigurato, d’allora
splendore ormai spento, senza parole
rimase al vedere forma logora
del suo fido scudiero: “Regole
infrangi? Leggi d’eterna fattura
rifiuti? Di così misera mole
è la croce che porti tra le mura
da non notarsi? No, vita circonda
la tua presenza e gioia matura
a vederti.” Nascosto tra la banda
dei dannati, tempo ebbi per parlare:
“Metà sei del percorso che discenda
alla foce del tutto; desiare
lumi coraggio dimostra, trappola,
temo, sarà fatta presto scattare.
Quante avventure, qual mera favola
abbiamo vissuto, le risa, ricordo,
dei tuoi canti buffi, mai parola
di scherno fu sì gradita, sguardo
attento rimembro nelle lezioni,

le notti…”. Come miele cola tardo
da alveo pieno, così brama visioni
d’allora porta e di salvare l’anima
sua a nuova vita, ma tali doni
dal guardiano non ottenni; prima

con basso miagolio, poi con morso
diniego diede. Svelato nella rima
della folla, da frusta colsi verso
sulla schiena; senza porre indugio
corsa feci del mio passo, che perso

ero se catturato. Con vantaggio
poco, dei demoni urti di filata
evasi, ratto per via torta, ligio,
di caverna attraversai l’entrata.

venerdì 23 ottobre 2009

Canto Quarto

Secondi passati immoti, di sogni
popolando con ninfe allegri giochi,
per breve sonno fui steso; ritegni
non ebbi a dormire su freddi solchi
che del luogo erano pavimento.
Ma sollievo ad orrori sì biechi
non v’è; svegliato con colpi cento
di zampa rovescio, tale la forza
da staccare teste, vidi distinto
del fido compagno le zanne. Scorza
dura la pelle, qual buccia di pesca
protegge l’interno, dolore smorza
per nulla, che la visione si offusca.
Ripresa del viandante la forma
migliore, sanato dai danni, losca
camera osservo e desiderio d’arma
volge al pensiero mio, che l’antro cupo
paure antiche richiama; rafferma
l’aria, sospiro non mette, lupo
sembiante il fumo ci avvolge tetro,
solo esso qui è presente, dirupo
profondo d’un nulla evitammo, che entro
la luce del cero l’orlo scorgemmo.
Seguendo del gatto il passo scaltro,
balzando tra crepe, gole passammo,
brecce tra rocce contando, fumose
forme e pennacchi di nebbia cogliemmo
soltanto; memore d’incendi, cose
di tempi ormai passati, l’acre odore
che respiro toglie e lacrime ombrose
fa versare all’animo mio, cuore
ancora non regge tali ricordi,

su tutto regnava. Quanto dolore
costa questo andare per corsi lordi
di fuliggine e braci ardenti? Quale
prezzo sto pagando? Quali balordi
motivi mi hanno spinto del male
traversare l’orribile distesa?
Sava, tua è la colpa e nulla sale
ad onore per quel che vidi; pesa
fardello quella spada, maledetta,
si spezzi come spezzò dell’attesa
la vita mia; mai scalare vetta
senza conoscerne i perigli angusti,
eppure a questa impresa, eri matta,
mi lanciasti; qual curiosa, vesti
spulciando, in bancarelle di mercanti
Nalimensi, del viaggio molesti
consiglieri, di sapere volenti,
foste tu e quell’incantatore vero
che a filosofare tendeva. Menti
fini tale cammino mai avrebbero
proposto! Comunque al danno compiuto
non v’è riparo, della stesa il mero
fumo tutto copriva, senza aiuto
alcuno procedemmo, ne i dannati
disturbare si poteva; di muto
lamento, i volti deformi privati
di vista, percorsi da pinnacoli
grigi che entro e fuori da stipati
corpi corrono, respiri refoli
solo permettono; qual infame
prodezza compirono, che da proli
perverse questa tortura di grame
sementi soffrono? Vedere l’ombra
d’uomo noto soffrire per lame
di fosca natura il dubbio tra membra
ghiacciate non solse. Nel vivere
nostro, della Terribile le labbra
veci per tempo fece, che collere
a Nalim non diedero danno alcuno;
ma, folle corsa, Alarico al potere
tese le mani, non trovando pruno
di frutti provvisto tra vecchie mura,
Karmisia ai propri servigi tribuno
si pose e mai a dolo fu posto cura.
Pensiero non s’ebbe per la sua sorte,
qual misero fato colse e perdura,
quando del cuore giunse la morte;
notare la sua figura tra queste
distese, stupore pose tra aperte
braccia, ma di colloquiare, triste,
non fu concesso tempo; del custode
il passo si fece cauto, viste
tra i fumi di guardiani le code.
Di esile corpo, le braccia possenti
in artigli, lo sguardo corrode
maligno del volere forza, denti
aguzzi come lame completano
il quadro; del pericolo tremanti,

tra due file ci muovemmo, d’un vano
la strada posero; non uno mosse
verso di noi, ne grido volse, strano,
quando alla porta giungemmo. Con rosse
tende a decorare l’entrata, l’antro
passammo guardinghi, nero trasse
che solo il lume di visione metro
fece. D’un tratto con sordo rumore
le ante si chiusero, di travi destro,
colsi coi lobi sinistro stridore.

sabato 17 ottobre 2009

Canto Terzo

Come l’aurora sorge tra i ghiacci,
fulgida, cristalli perenni luce
rifrange d’arcobaleni capricci,
così mi parve fatto, quando il duce
mio in cima alla scala giunse, l’antro.
Quanti gradini calcai non deduce
memoria, che chiocciola stretta dentro
la roccia seguimmo per ore; le volte
complesse, fin dalla cava di vetro,
osservai con orrore per le molte
pene che alle anime vengono imposte.
Del cero la fiamma accesa, alte
colonne di ghiaccio e stanze vaste
di colori inondavano lo spazio,
come farfalle d’estate le coste
di Angamor riempiono. Artifizio
di natura, per questi ambienti
spediti procedemmo senz’ozio,
che il gelo battere faceva i denti.
Curioso al volgere delle sale,
come gatto che esplora bastimenti
novelli, la fattura senza male
di quel luogo osservai da vicino;
narrare come posso del ferale
ambiente lo strazio che il destino
pose in cuor mio, Lhyra te invoco
a tenere la penna almeno sino
al concludere novella del loco!
Figura d’elfo colsi nella stele
di ghiaccio chiusa, occhi col fuoco
ancor vivo fissarono, fiele
stillante, la mia sagoma; subito
ritrassi d’un passo e come di tele
svelati i segreti, di kender cito
le forme, e orchetti, e nani in teche
cristalline scorsi. Per quale sito
giunsi non ricordo, di fronte a fosche
stanze fermai il mio fuggire, la guida
lasciata dietro alle sembianze losche;
come del vento il sussurrare fida
dei cantori, del lazzo e del deriso
viene fatto zimbello, così rida
chi alla mia verità si ponga inviso.
Di corpo umano la sostanza nota
pareva in quel blocco incompleto; liso
non sembrava dal tempo che ruota
senza sosta ed il volto dalla pena
sua resi libero: “Quale sorte immota
spinge un Dragone a venire sirena
di vita per l’alma di Federico
Squarcialupi? Dannato tu sei, lena
cerchi per le tue colpe? No, io dico,
vivo rimani che di corpo odore
l’aria assume.” Al cogliere aulico
del condottiero il nome, l’onore
ribelle ancora lo acclama, d’un tratto
mi trovai due passi indietro; dolore
non colsi su quell’uomo trafitto
dai veleni di Treon e il motivo
gli chiesi di questa tortura: “Atto
non feci, ne patto accettai vivo,
che per tale prigione mi condanni.
Nessun giudizio di reo viene privo
di prove, eppure emesse perenni
sentenze furono per molti. Come
giunsi in questo blocco non so, insonni
non fummo, fin quando il gelo nome
non prese. Questo solo inferno atroce,
pungente, io non osservai; quali some,
nel fuoco camminammo, qual croce
pesa la pena sulle nostre spalle;
quale motivo ti spinge alla foce
di questo corso?” Il lume di frolle
cangianti riempì la cava, fronte
faceva al buio con riflessi mille
e di Federico il quesito, errante,
rispose. Poi ratto riprese: “Breve
non è la tua via, pazzo incosciente,
che credi di ottenere? delle leve
degli Dei il vero non puoi sapere,
ne affrontare la loro ira. La neve
si scioglie in acqua per loro volere,
per loro capriccio si combattono
guerre; oltre quest’antro giacere
del fuoco, aspra pena, patrono,
ed ancora per il fumo noioso
dovrai passare; dell’acqua, non sono
certo, edotto già sei, e, curioso,
del ghiaccio la pena non sei ignaro.
Altro ho da dirti.” Giunse doloso
morso dal mio fido guardiano, raro
attacco a punire il mio andare solo:
“Attento, mortale, castigo amaro
ti spetta, da Rhas immortale.” Volo
non feci grande, del gatto la forma
seguendo dappresso, su cigolo
sospetto del pavimento, conferma
dell’ultimo dire appresi; spezzato
fu il ghiaccio che il peso poggiava orma,
e caddi nell’abisso senza fiato.

lunedì 12 ottobre 2009

Ecate

Questo racconto avrebbe dovuto partecipare al quinto concorso letterario BC, cosa che però non è avvenuta per una mera questione di tempo: quando decisi di scriverlo il termine per la consegna dei racconti era scaduto... 


Il vento passò ancora una volta tra le fronde della quercia, facendo stormire le foglie ingiallite dall'autunno, mentre lei aspettava; era passato parecchio tempo dall'ultima volta ed attendeva con impazienza che arrivassero, era addirittura in anticipo per non perdere minuti preziosi in loro compagnia: in fondo quella era una giornata speciale.

L'incrocio era deserto da ore, disperso nel bel mezzo della campagna, il silenzio interrotto soltanto dal canto dei corvi e dal gorgoglìo di un canale d'irrigazione. Giunsero dalla strada ad est, con la luce della luna appena alzatasi alle loro spalle, con passo tranquillo e l'aria serena; quando le vide le fece un gesto di saluto e sorrise:
"Ciao! Come state? Tutto bene?"
 "Ciao piccola, noi stiamo bene, e tu?" disse la più piccola delle due figure, una donna anziana dalla pelle segnata di innumerevoli rughe, i capelli bianchi raccolti in uno chignon d'altri tempi.
"Nonna, ormai sono una donna, non chiamarmi piccola!"
"Per me resterai sempre la mia piccola" rispose la nonna mostrando un lieve sorriso "il viaggio è stato faticoso, ci sediamo?"

Si accomodarono alla base della quercia  dove un piccolo falò ardeva consumando rametti e foglie secche, appoggiando la schiena al grande albero e fissando l'incrocio illuminato dalla luna:
"Allora, tesoro, cosa ci racconti?" Fu l'altra donna a parlare, una signora imponente e dall'aspetto severo.
"Va tutto bene, mamma. Sono a capo di una squadra, lavoro sodo e bene, faccio dalle 10 alle 12 ore, spesso salto anche la pausa pranzo; Io e Giulio stiamo pensando di comprare un appartamento un po' più grande di quello dove stiamo, il mutuo è un bell'impegno ma dovremmo farcela"
"Quando vi sposerete?" chiese la vecchia
"Sposarci? E perché?"
"Il matrimonio è importante" rispose l'altra donna
"Il matrimonio non vale niente, è un'inutile vecchia istituzione" disse la giovane donna
"Bah! Vivi nel peccato!" rispose la nonna, guardandola fissa negli occhi "Il matrimonio è la garanzia di una famiglia stabile e di un ambiente sano per i propri figli! » la sicurezza di avere un uomo a fianco che ti protegga e si occupi di sfamarti, sempre, mentre tu ti occupi della casa e di crescere i bambini. Con un marito non saresti obbligata a lavorare"
"Mama, i tempi sono cambiati" intervenne la donna imponente.
"Anche tu ti sei sposata"
"Sì, perché lo amavo. Ma anche dopo il matrimonio ho continuato a lavorare, perché altrimenti non saremmo mai riusciti a crescere lei e i suoi fratelli, a dare loro le possibilità che noi non abbiamo avuto. E non mi sembra di aver fatto un cattivo lavoro"
"E allora perché dovrei sposarmi?"
"Per rendere il tuo rapporto più solido, per legarlo a te con una promessa indissolubile"
"Sotto la tutela di Nostro Signore" aggiunse la vecchia
"Mama, l'importante è la promessa: che a testimoniare sia un prete o un ufficiale dello stato è lo stesso"
"Il matrimonio è sacro! Lo stato non può intromettersi"
"Ma io non voglio un legame così forte. È una condanna, una prigione... io voglio essere libera!" esclamò la giovane
"Tuo fratello si è sposato!"
"Se lui è scemo, io che ci posso fare?"
"Rispondimi, lo ami il tuo Giulio?"
"Ecco, mamma... beh, sì, credo di sì... a volte litighiamo ma mi pare normale, litigavate spesso anche tu e papà... però, ecco, a volte..."

La luna splendeva nel mezzo di un cielo limpido e stellato, stendendo un velo azzurrino di luce sui campi di grano e trifoglio
"Sei sciupata, tesoro, dovresti lavorare di meno"
"Non posso, mamma, c'è così tanto da fare..."
"Tuo padre ed io non abbiamo rischiato il carcere per vederti lavorare così tanto"
"Ti sei scelta un lavoro non per te, piccola" intervenne la vecchia "Le donne non sono adatte a comandare, non è il loro ruolo"
"E quale sarebbe un lavoro per me, nonna? L'infermiera? La segretaria? La commessa? Non ho studiato e faticato tanto per poi far decidere altri"
 "E cosa ci sarebbe di male? Una donna che lavora quanto tempo può dedicare ai suoi figli? O a suo marito? Ho lavorato anch'io quand'ero signorina, sono andata a servizio da una signora di città, mi sono spaccata la schiena a pulire, cucinare e badare alla loro casa, ma appena mi sono sposata ho smesso, perché i miei doveri erano altri. C'era un maggiordomo a dirigerci e non ho mai pensato di poter prendere il suo posto."
"Mama, cos'ha un uomo che una donna non può avere?" rispose la signora dall'aria severa "Quando ero in fabbrica ho scioperato per avere condizioni migliori, giorni di ferie e malattia garantiti, diritti che oggi sembrano ovvi. Suo figlio ha manifestato per il riconoscimento della maternità, ha subito le cariche della polizia, ha affrontato i lacrimogeni per avere un posto di lavoro più sicuro. E per non essere pagato una miseria. Io stessa sono scesa in piazza per reclamare pari diritti alle donne. E non ho mai smesso di lavorare."
"Ma anche tu non hai mai pensato di metterti a capo della fabbrica."
"Vero, ma sia io che lei non abbiamo studiato abbastanza; però ho lottato perché a mia figlia quegli studi non fossero negati, e lei, da genitori operai è diventata dottoressa"
"E io non ho ancora smesso di ringraziarvi per tutti i sacrifici che avete fatto per me" disse la giovane
"Oh Signore Benedetto, ma fare il soldato è un lavoro da uomini! Anche se da ufficiale, rimane comunque un compito per gli uomini"
"Perché, nonna, perché? Non mi manca la capacità di reagire, ne la decisione, ne il coraggio, ne la testa per fare il militare. I tempi sono cambiati, difendere la nazione non è più una prerogativa maschile, e io voglio fare la mia parte"
"Anch'io avrei preferito scegliessi un'altra carriera, ma è la tua vita ed è giusto che sia tu a deciderne le sorti. Io sono orgogliosa di te"
"Grazie mamma" disse la giovane sorpresa, con un accenno di commozione nella voce; non era abituata a sentire sua madre farle un complimento, erano molti di più i rimproveri e le sgridate per le bravate che lei e i suoi fratelli avevano combinato.
"Va bene, i tempi sono cambiati, anche troppo per me, però ora dovresti riflettere almeno un po' sul tuo futuro; soprattutto adesso, nelle tue condizioni"
"Ti prometto, nonna, che lo farò"
"È tardi, mama, sarà meglio andare"




La sveglia eruppe nel silenzio della camera da letto col suo fastidioso, squillante trillo, mentre con gli occhi aperti già da qualche minuto la ragazza stava riflettendo, cercando di tenere a mente il più possibile di quello strano sogno; sua nonna aveva ragione, ora le cose erano diverse, doveva rifletterci, forse avrebbe dovuto cambiare qualcosa, anzi sicuramente avrebbe dovuto cambiare qualcosa: avrebbe rinunciato alla missione, nelle sue condizioni non avrebbe mai ottenuto il permesso per andare a rischiare la vita dall'altra parte del mondo. Doveva dirlo a Giulio, ancora non aveva idea di come, ma doveva dirglielo; In fondo, quello che portava in grembo, era anche suo figlio.

giovedì 8 ottobre 2009

Canto Secondo

Passata la porta mi trovai, d’un tratto,

in un’ampia caverna scura, che il lume
ben poco illuminava; per ogni anfratto
un’ombra rifletteva, come barlume
di paura. Fissai, chiusa la porta,
la mia guida che dell’antro le brume,
con occhi curiosi, esplorava accorta.
Quale posto era quello? Di che inferno
era parte quell’ampia grotta torta
ed inquietante? Forse qui attorno
passavano le anime condannate?
Questi quesiti tuttora discerno
tra ricordi e vaghe immagini nate
allora che la mia mente mantiene;
ma al tempo, tra scure nebbie portate
nella notte, m’accorsi da orme piene
che del gatto le tracce persi. Ratto
seguii delle zampe il corso, pene
soffrendo per il terrore che sotto
a quella volta il cuore t’attanaglia;
giunsi greve fino un passaggio rotto
nella roccia come piccola faglia.
Entro un corridoio angusto il custode
attendeva l’animo mio alla soglia;
come scavato da talpa che rode
di verdure le radici sembrava,
talmente stretto che l’avanzare ode
non merita, che pure strisciava 

la guida. Percorso il lungo budello
di rocce e massi composto, brillava
l’uscio di una fosca luce, tranello
temendo la testa sporsi cauto
e nebbia marina m’avvolse il collo.
La vista della cala rese muto
dei lamenti per il tragitto l’animo
mio; bianca spiaggia, di flauto
le melodie tra le rocce, limo
sugli scogli affioranti, splendente
tutto colse. Il felino, d’attimo
correndo, balzò su una galleggiante
barca posta a riva, pronta a salpare,
e fissò me con occhio bruciante;
altra via non v’era per cui trovare
la cava ove Rhas regnava? Non feci
in tempo la domanda a formulare,
onde enormi travolsero, dispreci
pietà, la rada frangendo forti
inondavano, e di pinne veci
i miei arti fecero; per sorti
fauste giunsi al naviglio leggero
che lentamente verso mari aperti

procedeva. Issata sull’albero
la vela, dal vento sospinti traccia
non v’era più della cala; invero
sol acqua si nota, tra i flutti breccia
non fanno scogli, ne alghe, ne d’isole
all’orizzonte si staglia la roccia;
sol onde si perdono in lente fole
fin dove l’occhio vede: caddero
gocce su vesti già zuppe e mole
felina, che sulla prua fiero
era posto, da cieli gravidi
d’acqua e saette lucenti nel nero.
Ore passarono in cerca di lidi
nuovi cui approdare, finché un guizzo
notai tra i flutti; d’umano vidi
una figura con furioso spruzzo
nuotare ratto verso il legno nostro,
ma preso venne da essere, nel mezzo
dell’impresa, di orrida specie, mostro
sembiante con coda di pesce, squame
coperto, viso deforme, indietro
spingeva il dannato; sottili lame
ferirono d’un colpo la figura.
Con sguardo furioso, come trame
spezzando, a me si volse: “Tortura
degna vuoi forse fuggire, stolto
dannato? Credi che l’anima pura
tu abbia? Uscire non potrai”. Colto
sprovvisto di difesa, il demone
con rabbia al naviglio lanciò l’assalto,
ratto saltò per prendermi; ciclone
la forza prendendo, con balzo audace
il grigio compagno come leone
con rapida zampa un braccio capace
dei quattro staccò di netto; con soffio
minaccioso per l’essere rapace
sconfitta annunciò: “Vattene! Il giusto fio,
mortale, pagherai per l’ardire
tuo.” Così parlò reggendo del graffio
il dolore. Altro disturbo all’ire
nostro non fu commesso, ma galera
imponente, scura, che al progredire
tra i flutti, dannati coglieva mera
e dannati gettava, lungi vidi
navigare l’infinita sua crociera.
Infine al viaggio in celati lidi
giungemmo ad un isolotto spoglio;
il custode per caverna intravidi
andare e dietro a lui mi mossi sveglio.

venerdì 2 ottobre 2009

Canto Primo

Nel mezzo del salon d'una taverna
mi ritrovai sul fil d'una spada
che sulla morte mia non si discerna.
Ora, della vita più si aggrada
chi tempo ha per adorarla mesto
che nera Signora accoglie rada,
e l'animo mio fu molto lesto
a rimediare fede per il vuoto
che, scuro, l'avrebbe avvolto presto.
Corsi per corso celeste ignoto,
tra nubi e cieli giunsi ratto
e il cuore alla visione è devoto;
quel che vidi, sembrare di matto
fantasia accade, seppur vero,
e di narrare a voi ne faccio fatto.
Mi trovai d'un tratto con un cero
dinanzi ad un palazzo antico,
attraversai di oro e marmo nero
il pavimento d'ingresso amico
fino ad una porta di fregi adorna;
quali gesta narrate non vi dico,
mai memoria di allora torna
di tali figure così splendenti,
di magnifica fattura le corna,
di grande perizia gli adunchi denti;
di più sfugge al mio intelletto sano.
Spinsi l'enorme portale in avanti,
leggero come piuma, fu strano,
si mosse, lasciando un grande varco
che di luce mi inondò. Come soprano
la voce supera il coro, dall'arco
giunse un profumo invitante, caldo,
di arrosto, che mi guidò entro il parco.
Tale era la sala che presi baldo
oltre l'entrata, adorna di piante,
di fiori immersa era, come araldo
mi feci avanti, cauto, l'istante
in cui vidi una tavola imbandita
e cinque scranni fatti per gigante;
attorno a tal gioia della vita,
trovai assieme gli dei antichi
che veneriamo divisi. Sita
in fitta discussione, Rhas con occhi
crudeli d'un tratto mi vide e d'ira
colma, voce possente: "Cosa cerchi?
Cosa al nostro cospetto ti attira,
misero unto di sì poco cervello?
Qual dannato vuoi, che respira
nuova vita e peggiore fardello?
Chi ti ha guidato fino alla nostra
dimora, che pur mortale non fallo
d'ingegno, visitare non osa?" Tra
tremiti e paure il lume mostrai,
con espressione stupita e tetra
gl'immortali volti attorno attirai
alla flebile fiamma, che ardeva
leggera; come in sogno serrai
il cero che così tanto prendeva

gli dei riuniti, fino a quando
m'accorsi di Faith che rideva:
"Giovane mortale, lumi cercando

sei giunto a codesto palazzo,
il pericolo imprevisto affrontando
di non tornare al vivere te avvezzo.
Folle o impavido che sia, gli inferni
di Rhas vedrai, ma nel tetro pozzo
solo non ti lascerò; perché torni
una guida esperta avrai al tuo fianco,
purché gli dei tutti in questi interni
siano d'accordo." Fu così franco
il discorso che gli altri commensali
a obiezione non diedero banco.
Lolt coperta da sottili strali
di seta, Ashanna foglie ridente,
consenso portarono senza mali,
Jaboth guerriero possente
di Rhas l'ultima parola aspettava:
"Misero stolto, mortale imprudente,
che pensi di trovare nella cava
dei più oscuri regni che io proteggo?
In quale prodigio credi ove grava
pianto d'anime morte cui traggo
l'immenso potere che possiedo?
Qualunque cosa nel regno che reggo
tu stia cercando invero non credo
la troverai; vai pure, mortale,
alle domande risposte non vedo."
Terrore colse allo sguardo regale
l'animo mio, fermo in quel luogo,
l'amaro permesso così brutale
lasciato m'aveva senza sfogo
al dire mio, che la lingua pare
di ghiaccio bruciare come rogo.
Aperta fu una porta e stagliare
sull'uscio di gatto una figura
vidi: "Giunto il tempo per te di andare,
giovane umano; Nebbia avrà cura
di portarti in salvo tra gli aviti
regni di Rhas immortale." L'oscura
porta varcai con due passi arditi.

lunedì 26 gennaio 2009

Volata

“20 a 17! Finita.”
“Che dite, ne facciamo un’altra?”
Una dozzina di sguardi si alzano verso il cielo su cui si stanno addensando nubi nere cariche di pioggia; il temporale di fine agosto preannunciato dal meteo sta arrivando a porre fine a quest’afosa estate durata più del dovuto.
“Ho idea di no. Io vado. Ci vediamo settimana prossima.”
Saluto i miei compagni di gioco di questo campetto da basket, dall’altra parte della Metropoli Nebbiosa rispetto a casa mia; con una breve rincorsa salgo in sella e mi avvio lungo viale Sarca, mentre il vento comincia a soffiare sempre più impetuoso: il sole, finora implacabile, comincia a impallidire. Meglio non perder tempo.
Passo in viale Zara pedalando a più non posso, nella speranza di tenere la tempesta dietro di me, attraverso vie e piazze sfrecciando alla massima velocità permessa dai miei muscoli affaticati, dentro di me prego che il semaforo in fondo al ponte di Carlo Farini mi sia amico.
É rosso!
Non posso fermarmi.
Non posso fermarmi.
Non posso fermarmi.
Come un proiettile mi lancio per la discesa, svoltando a destra per il Monumentale, inseguito dall’ombra sempre più cupa di tonnellate d’acqua pronte a riversarsi su questa città arsa dalla calura, il pavè di via Procaccini è così sconnesso che mi costringe a rallentare un po’ l’andatura; appena immesso nel controviale di corso Sempione mi sprono per un’altra accelerata: l’asfalto scorre sotto le ruote rapido, il sole, seppur pallido, resiste all’inevitabile avanzata di un cielo nero come la pece attraversato da lampi bluastri. La fatica delle ore giocate sotto il sole rovente comincia a farsi sentire, le gambe accumulano acido lattico e ogni giro di pedale diventa sempre più difficoltoso, ma non posso cedere, il vento mi spinge quasi furente mentre i contorni delle ombre svaniscono intorno a me; in piazza Napoli un semaforo mi costringe ad una sosta, preziosi secondi scorrono nell’attesa del verde. Qualcosa mi colpisce sulla testa, qualcosa di freddo e bagnato; gocce di pioggia qui e là cominciano a colpire l’asfalto e le poche auto parcheggiate lungo i marciapiedi; ai miei occhi il ponte di Carlo Troya sembra il passo del Gavia, inespugnabile, forse dovrei cercare un riparo e lasciar sfogare la tempesta, forse... Ma dove? In questo agosto fatto di marciapiedi sciolti, di carrozzerie arroventate, di tram deserti, le vie appena fuori dal centro non sono altro che un susseguirsi di portoni chiusi e serrande abbassate, non un bar, non un portone dove ripararsi: non c’è scelta.
Al verde imprimo tutta la potenza che posso esprimere sui pedali, cercando una velocità che mai ho raggiunto, nella speranza che lo slancio mi aiuti a superare l’impervia salita, senza rendermene conto scollino dal ponte pedalando come se non ci fosse un domani, con le gocce di pioggia che cadono dietro di me, mastini che per un soffio hanno mancato la preda. Rapidamente percorro viale Cassala e viale Liguria prima di svoltare in Ascanio Sforza, curvando in piega come un motociclista, il pedale sfrigola sull’asfalto ruvido della curva scaturendo qualche scintilla; la ruota dietro scivola, forse mi sono piegato troppo, non può tenere.
Non posso cadere adesso, ancora un istante, chiudo la curva, tieni, dai, tieni, ti prego, ti prego, ti prego.

Un attimo dopo percorro la via costeggiata dal Naviglio Pavese mentre il vento si fa sempre più impetuoso e minaccioso; giunto al mio portone copro la bici col suo telo impermeabile e percorro le scale. Sono le 17 e 14, 59 minuti dopo la mia partenza dal campetto. Allo scoccare del quarto d’ora la grandine tempesta sul tetto del mio palazzo.