martedì 2 marzo 2010

Canto Settimo

Lume non persi, ne steso rimasi
molto, che salvo per quelle pianure

non ero. Dall’arco passati rasi
dell’arma persi il contatto, di mure
colsi l’eterno stare tra immobili
spazi; come del cantore letture,
d’amori e imprese si cercano i fili,
col lume ad unica fonte del gatto
traccia non rinvenni, segni flebili
della sua presenza scomparsi. Patto
fu sciolto? Nella battaglia ai demoni
non sopravvisse? Qual sorte tratto
teneva ora l’animo mio, grifoni
volteggiavano per volte di lame
decorate, tintinnare pavoni
con piume di cristallo, infame
incubo, sentii attorno. Attesa
non feci, ne indietro tornai per trame
svelare degli ultimi dubbi, pesa
il cuore abbandonare compagno,
rapido mi volsi della distesa
ad osservare l’aspetto maligno.
In fronte stava foresta di pali
composta, catene a far del legno
rami e foglie, brezza leggera strali
muoveva di malinconie amare,
gioie perdute, di piccoli mali
i dolori mostrava a perorare
cause d’innocenza. Passi mossi
svelto e per sentiero stretto andare
presi con miraggio d’uscita; assi
non notai, per il peso mio cedenti
in profonda fossa caddi, riflessi
non furono, per evitare, pronti,
della trappola l’inganno. Da rete
fui avvolto, come sarda da pescante
naviglio intrappolato, tra discrete
file di folli figure fui alzato
e ad alto palo legato. Facete
risa di giubilo i demoni fiato
diedero, occhi luccicanti, labbra
torte in malvagi ghigni, perlato
stridore di unghie e corna su scabra
colonna del loro terribile antro
la punizione conobbi. Tenebra
giunse e di paure, disprezzi, d’atro
rimorso mi colmarono; lacrime,
ancora una volta, corsero, latro,
tra solchi già noti, per infime,
bugiarde passioni che per piacere
dei guardiani provavo prime.
Del supplizio vittima rimanere
non era destino, dell’aguzzino
la mole possente vidi cadere;
tripudio di gioia si spanse fino
a spaventare dei demoni menti,
con risa accolsi del grigio felino
l’attacco, le zanne nel collo entranti
in breve l’essenza del servo oscuro
strappò. Con rapidi colpi furenti
del corpo fece brandelli, del muro
di pianto briciole attorno sparse,
come di Theratos, fulmine puro,
la forza colpisse; con furia d’orse
gravide dieci, del palo i ferri
spezzò ratto, libero fui, e corse
tra piloni di anime perse, verri
evitando. Pena di natura aspra,
quante volte siamo noi stessi, serri
nella cerca del meglio nostro sopra
ogni cosa, ad infliggere pene
e dolori di tal guisa? Tempra
d’acciaio non tutti forgiano bene,
in schegge si spezza, colpi mancini
tra pieghe metalliche astio ottiene,
a soffrire per crudeltà, inclini
a lasciare col destino la lotta,
e per nostre scelte di manichini
prendere forma e sentire. Retta
ragione a guida va posta, moti
d’animo a costante controllo metta
chi dai sentimenti doli vuoti
non vuole provare nella vita.
Altri ostacoli nel correre noti
non si fecero, tra i pali, trita
sofferenza esposta, nulla si pose
ad avversare il nostro ire; gradita
sorpresa non fu trovare, tra rose
rosso sangue e bianco neve, rovi
difesa, dell’inferno le penose
arcate. Varcare senza nuovi
tagli possibile non era; tempo
non avevamo, paura di covi
nascosti ed altra trappola nel campo
tenevo. Ma a soluzione diversa
non giungemmo e l’irta strada, che lampo
sembrava, di spine, coperta morsa,
affrontammo; punture da piante
molte subimmo, ma tenace corsa
tenemmo, fino della meta fronte.

mercoledì 17 febbraio 2010

Memorie di un Tempo

Era stata una giornata lunga, calda, col sole alto e il cielo limpido senza nemmeno l'ombra di una nuvola a macchiare il suo azzurro intenso, avevano girato su una delle jeep in compagnia degli altri turisti, fotografando elefanti, giraffe, antilopi, un solitario leopardo in cima ad un baobab, godendosi il panorama offerto da quello scorcio di savana. Ora la luce cremisi del tramonto inondava l'erba alta e i radi alberi che si stagliavano lungo tutto l'orizzonte, mentre Francesca osservava il lento calare del disco rosso; stava sorseggiando un cuba libre annegato nel ghiaccio, appoggiata allo stipite della porta-finestra nel bar dell'albergo, gli occhi fissi sulla distesa verde infinita; per quel giorno non l'aveva visto, non aveva trovato un solo cenno della sua presenza, e nemmeno degli altri: aveva tempo, era soltanto al primo giorno, però aveva sperato in po' di fortuna, visto che la dea bendata l'aveva già assistita facendole incontrare Tre Zanne. Agitò il bicchiere per far muovere i cubetti di ghiaccio in un lento walzer tra i bordi di vetro.

Fame. Aveva fame. Erano giorni che non metteva in bocca qualcosa di buono ed energetico, aveva perso il conto delle notti passate con lo stomaco gorgogliante e stretto, quasi dolorante... e aveva sete, ma per fortuna c'era una fonte d'acqua non troppo lontano da lì, avrebbe soddisfatto la sua gola riarsa a breve, sempre che le energie per muoversi non l'avessero abbandonata all'improvviso; si sentiva debole, ogni passo era uno sforzo di volontà, una tortura per il suo corpo stremato. Quanti giorni erano passati dal suo rapimento? due, forse tre mesi, quando quei banditi assaltarono il loro convoglio e li portarono via; nulla di personale, nessuna guerra terroristica o religiosa, soltanto dei delinquenti che speravano di ottenere qualche migliaio di dollari, dopo i primi momenti di tensione si erano comportati con cortesia e non l'avevano mai maltrattata, chiacchierava con i suoi carcerieri, alcuni solo degli adolescenti armati di Kalashnikov, dell'Italia, dell'Europa e del suo lavoro: non si era ribellata, ne aveva mai tentato di fuggire, erano i modi migliori per meritarsi una raffica di pallottole nella schiena. Tre settimane dopo il suo rapimento, Chinedu corse da lei con gli occhi pieni di terrore, le diede in mano un machete, una piccola sacca di tela e la spinse fuori dal nascondiglio urlandole di scappare, di andare il più lontano possibile; gli spari inondavano l'aria e sovrastavano qualsiasi rumore la foresta potesse produrre: in seguito scoprì che la sua libertà era merito di uno scontro fra bande.

Aveva vagato per la foresta pluviale per giorni, sfruttando i pochi viveri trovati nella sacca, facendosi strada col machete e preservando un pacchetto di fiammiferi; ogni giorno cercava di orientarsi in quell'intrico selvaggio, ma non aveva idea di dove andare; dei tre corsi di sopravvivenza che aveva seguito con il suo ex si ricordava ben poco e in ogni istante cercava nella sua testa le nozioni per rimanere viva in quell'ambiente ostile. Aveva trovato frutta e mangiato funghi, era stata costretta a difendersi più di una volta, infine era giunta al limitare della foresta, ed era uscita, una notte, per percorrere la savana. Si era costruita una fionda, con due strisce di cotone della sua camicia, l'aveva usata per cacciare mancando spesso il bersaglio, lei che era contraria a qualsiasi forma di violenza sugli animali, si era costruita una rudimentale lancia, un palo di legno rozzamente appuntito a colpi di machete, in qualche modo era riuscita a prendere una specie di lepre... molti giorni fa, era riuscita a difendere la sua preda dagli avvoltoi, a cucinarne un po' al riparo, prima di dover abbandonare il resto agli sciacalli.

- A cosa stai pensando, Franci? - La voce di Luisa la scosse dai suoi ricordi. - Tutto bene? -
- Sì, tutto bene - disse Francesca - stavo solo ricordando. -
- È qui che ti hanno trovato anni fa, giusto? Immagino sia stato terribile per te, persa in questa vastità -
Francesca sorrise, e tornò ad ammirare l'ultimo spicchio di sole prima che scomparisse dietro l'orizzonte.

domenica 10 gennaio 2010

Canto Sesto

Breve fu del pendio l’ascesa dolce,
che mirare della cava scenario

prese tempo e stupore; quale pulce
che da schiena osserva di grimorio
gli scritti arcani, così, con pupilla
fissa, meraviglia appresi d’avorio,
di perle e di quarzo l’arte più bella.
Ma il cammino nostro per queste sale
proseguire non era volto; molla
scattante, il custode per portale
d’alabastro e d’argenti rilucenti

intraprese nuovo ire: ferale

fu lo spettacolo di marcescenti

paludi ricolme di pece, vasche
di ceneri nere, d’incandescenti
ferri per strazi, che memorie fosche
di buie segrete grevi affiorano.
Per quale opera di Lubas le ricche
volte che questa gora anticipano

furono costruite? Quale inganno
viene intrapreso? Nessuna mano

disturbare può il fato con senno,
ne concessa scelta alle anime morte
dagli dei. Eppure come sordo inno
di chiacchiere scorre tra le porte,
così tale splendore gloria acclama,

dell’ultima battaglia piega sorte.
Condotto ratto per stretta via grama
tra le pozze ribollenti, macchine

di sofferenza e di dolore trama,

vidi a moltitudine mille, fine
supplizio e rude violenza sortite,

come del mattino le fredde brine,
che a compassione per l’anime trite
muove il cuore. Nell’ascoltare
dei dannati strepiti e pervertite
risa di demoni folli, urlare

colsi d’umana voce del mio nome
il suono; mi volsi per scovare
la fonte di tale trambusto, come
mi apparve ancora rimembro con orrore!
Steso su tavolaccio lordo, some
infernali trazione a percussore

imprimono, aprire con pesante
colpo mobili assi per guide more
scivolano ad arti strappare, lente,
dal corpo, di Jakal von Shar osservai
lo strazio; con passo svelto l’aitante
condottiero, con sforzo nullo, levai

da quella tortura abominevole.
Non fu complesso, la macchina privai
di moto; dei demoni benevole

fuga fui causa io? Del mio compagno

la fama fin qui era giunta? Per mole
non atto allo scontro frontale, regno

fece suo dell’infiltrare, sortire
e sabotare; maestro di spada degno
di nobili corti, fece perire
molti tra i ribelli, per loro mano
di questo inferno gramo prese l’ire.
Sospiro trasse l’anima, malsano
occhio a me volse e parole cariche
di speranza sciolse: “Vivi vagano,

ormai, per mondi non loro? Pudiche
menti i cieli raggiungono in membra
del piano terreno?” Parole parche
usai per rispondere ai dubbi che ombra

si posero al comprendere del fato

lo strano corso: “Come faro libra
luce a guidare navigli per lato
di costa aspro, così la tua presenza
risplende per queste gore; malato
pensiero, follia ti guida, gonza
voglia di sapere fin qui t’ha posto;
per stima del patto che, con costanza,
ci lega, odi d’un misero, pesto,
lacero dannato verbo ed appello.
Dei prossimi inferni, sapere mesto

che poco m’allevia, questo fardello
poco pesa, che a soffrire le carni
sole: avanti dell’anima fallo,
dei tuoi prossimi i dolori, perni

a tortura volti si trasformano;
della dissoluzione e di moderni
piaceri la tomba proverai. Brano
ancora manca al mio canto maligno,
ma lume mi manca, Nuvak legano

con benda nera, l’oscuro disegno

non mostrano a chi cerca. Per l’anima
mia l’Esarca preghi.” Altro, ritegno
ebbi, non chiesi, goccia di stima
discese per il Capitano, strada
ripresi, tra ruote e lame, prima
minaccia, passai indenne; presa spada,
non so da quale fodero estratta,
per affrontare demoni che rada

l’accesso bloccarono fermi. Matta
sapienza, che mai troverò? Preso
non venni da braccia, coda trafitta

in nera arcata mi lanciò disteso.

mercoledì 30 dicembre 2009

L'arrivo

- Li hai fatti infuriare - disse Luisa, sdraiata sul suo letto.
- Quel babbuino si è preso una libertà di troppo, dovevo dargli una lezione. -
- Non era sufficiente riprendersi i biscotti? Voglio dire, l’hai pestato a sangue! -
- Non avrebbe capito… Invece così ha imparato a temerci - disse, mentre con calma si toglieva i vestiti impolverati; Luisa era una delle sue migliori amiche, e l’unica che aveva la possibilità e i giorni per poterla accompagnare in quel viaggio: l’aveva conosciuta qualche mese dopo il suo ritorno in Italia, 6 anni fa, quando aveva cominciato a frequentare un pub, era la prima volta che facevano un viaggio insieme.
- Avresti dovuto vedere le loro facce… - riprese Luisa, mentre sfogliava una rivista di moda - Spero che questa tua bravata non ci costi la vacanza. Se l’ambasciatore viene a sapere cos’hai combinato ci rip… -
- L’ambasciatore non può farci nulla, le nostre guide non diranno nemmeno una parola. Mi faccio una doccia -
- Ok -


L’aereo era atterrato da una decina di minuti, quando finalmente i portelloni si aprirono e i passeggeri cominciarono ad assaporare la calda atmosfera africana dell’aeroporto internazionale di Nairobi. Dopo anni di attesa avrebbe rimesso piede su quelle terre, avrebbe ricalcato quella porzione di mondo in cui aveva lasciato così tanto di se stessa e che l’aveva profondamente cambiata; ci volle una mezz’ora prima che riuscisse a recuperare le valigie, non pensava di essere attesa all’uscita; un uomo in completo blu scuro, nonostante il caldo torrido, le venne incontro – La signora De Simone? – chiese gentilmente.
- Sì, sono io. - rispose
- Può cortesemente seguirmi? L’ambasciatore vorrebbe parlarle -
- Con me? Non capisco, spero non ci siano problemi con il mio visto -
- Non si preoccupi, credo che voglia soltanto scambiare due parole - rispose l’uomo sorridendole - non le faremo perdere molto tempo; se necessario l’accompagneremo noi al resort in cui ha prenotato. -
- E la mia amica? Per lei è la prima volta, non vorrei si perdesse. -
- Può accompagnarci. -
Non poteva immaginare un inizio peggiore per la sua vacanza, nonostante gli anni passati il suo nome all’interno dell’ambasciata era ancora ben noto, ed evidentemente il suo ritorno in Africa aveva destato preoccupazione. Che avessero intuito le sue intenzioni? Negarsi avrebbe peggiorato la situazione.
- Va bene, mi faccia strada - rispose con voce calma.


Con gli occhi chiusi assaporava l’acqua calda che cadeva sul suo corpo nudo, lasciando che i muscoli si sciogliessero dalla tensione del lungo viaggio, scorrendo rapida sulla sua pelle abbronzata.


L’ufficio dell’ambasciatore era luminoso ed inondato dal sole, schermato soltanto da alcune leggere tende di lino bianco; Il diplomatico, un uomo robusto sulla cinquantina, si trovava seduto alla sua scrivania di fronte ad un fascicolo quando entrò nella stanza.
- Benvenuta signora De Simone, si accomodi, grazie - disse l’uomo con un sorriso - mi scusi se l’ho fatta venire fin qui, non ho intenzione di farle perdere del tempo. Vorrei porle una domanda, posso? -
- Prego -
- Cosa è venuta a fare in Kenya? -
- Una semplice vacanza… mi manca tantissimo l’Africa e volevo tornare a godermi quest’aria e gli stupendi panorami della savana - Rispose con un velato sorriso negli occhi; rivelare il vero motivo di quel viaggio avrebbe protratto la sua permanenza presso l'ambasciata.
- Mi auguro che sia così… Il governo locale quando ha visto la sua richiesta per il visto si è allarmato; qui davanti a me ho il suo fascicolo, ne ha combinati di guai allora… -
- Allora non avevo scelta -
- Davvero? Qui leggo che… -
- Ricordo esattamente cosa feci e come ho vissuto anni fa, ma non sono qui per rivivere quei giorni. - Disse con forza; il sorriso che le aveva increspato le labbra era sparito, lasciando trapelare una forte rabbia. Non poteva permettere all'ambasciata, o alla polizia locale di intromettersi nei suoi progetti.
- Eppure ha prenotato una camera di un resort dell’area in cui fu trovata 6 anni fa, giusto? -
- Sì, e con questo? Sono posti meravigliosi di cui riserbo un ricordo splendido, voglio solo rivederli. - Mentì con decisione.
- Spero che sia come lei sostiene, Signora - disse l’ambasciatore dopo qualche attimo di silenzio - la prego di non fare stupidaggini, non vorrei trovarmi costretto ad interrompere la sua vacanza. -
Non era sicura di aver convinto il diplomatico delle sue innocenti intenzioni, ma per lo meno quell'inconveniente era finito e poteva partire per la meta finale del viaggio.
- Non si preoccupi, è solo una normale vacanza - rispose la signora, con un lieve sorriso - ora, ambasciatore, se non le dispiace… -


- Ma cos’hai sulla schiena? - La voce di Luisa la fece sussultare, riportandola con la mente al piccolo bagno e alla doccia, che chiuse.
- Nulla di che, è solo un ricordo di un vecchio amico - disse con un sorriso.
- Che brutta cicatrice... bei ricordi che ti lasciano i tuoi amici, Franci… non era meglio una fotografia? -
Una leggera risata uscì dalle labbra di Francesca.

mercoledì 18 novembre 2009

Uno Strano Incontro

Il sole era un'enorme disco rosso che lentamente calava oltre l'orizzonte, ricoprendo la savana con la sua luce cremisi; i fuoristrada erano fermi sul bordo della strada sterrata per permettere al carico di turisti europei un momento mozzafiato da fermare con la mente e una macchina fotografica, prima di giungere al villaggio da 5 stelle sperduto nella natura africana che li avrebbe accolti per quei pochi giorni di vacanza, mentre intorno a loro la natura continuava a muoversi come se la loro presenza fosse insignificante... eppure non si sentiva tranquilla.
I conducenti si erano fermati vicino ad un numeroso clan di babbuini, alcuni dei quali gironzolavano attorno alle macchine con disinvoltura, quasi fossero elementi abituali del loro habitat, nonostante il pesante odore di gasolio e metallo che sicuramente i loro nasi captavano; si muovevano con calma, da padroni di quel lembo di terra, ficcando lo sguardo negli abitacoli e fiutando l'aria, scambiandosi ogni tanto un verso. Qualcosa li attirava sempre più vicini ai grandi mezzi, qualcosa che per loro doveva essere interessante.
Non le ci volle molto per capire a cosa le scimmie erano interessate: Il signor Schöll, un placido, tranquillo e cortese pensionato tedesco proveniente da Colonia, teneva di fronte a sé aperta una piccola scatola di biscotti al cioccolato, scatola che prontamente un giovane babbuino maschio aveva preso sotto gli occhi stupiti dell'anziano; ci volle un attimo prima che la bianca mano grassoccia scattasse verso le zampe scure che stringevano quel piccolo, goloso tesoro e lo strappassero con forza per restituirlo al legittimo proprietario: il babbuino, in tutta risposta, snudò le lunghe zanne in un minaccioso sorriso.


Non se lo era aspettato, non era previsto, di solito una volta mostrati i potenti canini, odoravano di paura, e cedevano qualsiasi cosa gli avessero conteso. Invece era stato colpito, in faccia, un colpo potente e deciso che l'aveva steso nella polvere; aveva avuto bisogno di qualche momento per riprendersi, il male al naso era forte e caldo, la rabbia incontenibile, quell'umano femmina lo aveva colpito e ora era lì in piedi di fronte a lui, impedendogli di raggiungere la fonte di quel profumo dolce, indizio di uno di quei cibi dolci che gli umani a volte portano con sé: non poteva permettere a quella fragile presenza di opporsi al suo desiderio, non poteva permetterle di umiliarlo di fronte a tante femmine e a tanti rivali, a tanti anziani che presto avrebbe battuto.


Il babbuino caricò a testa bassa urlando tutta la sua rabbia, inconscio di quello che lo aspettava: lo colpì di nuovo sul muso, proiettando la gamba destra avanti a lei con uno scatto, nel momento stesso in cui la scimmia balzò con l'intento di gettarla a terra; volò all'indietro per qualche metro prima di atterrare rovinosamente sul suolo polveroso.
Era eccitata. Quanto tempo era passato dall'ultima volta! L'adrenalina le scorreva in tutto il corpo come impazzita, respirava e assaporava a pieni polmoni quell'aria così carica di tensione, quella tensione che in tutti quegli anni le era mancata, di cui aveva odorato un surrogato solo nelle palestre di arti marziali che aveva frequentato per imparare e migliorarsi, in attesa di quel momento. Il suo avversario era ancora a terra, vivo, che si torceva dal dolore tenendosi il muso fracassato tra le mani; era soddisfatta dei suoi anfibi rinforzati, comprati ad un mercatino di rimesse dell'esercito. "Alzati! avanti, alzati!" pensò con furia, presa dall'inebriante gioia del combattimento "Alzati da terra e combatti! Bravo, così, carica ancora a testa bassa, assaltami, vieni a prenderle ancora!"


Il babbuino era di nuovo in piedi, gli occhi iniettati d'odio, il muso sanguinante gocciolava sulla pelliccia impolverata; ringhiò ancora mostrando tre affilati canini, prima di lanciarsi nuovamente all'attacco di quella donna che lo stava umiliando di fronte a tutto il clan; d'improvviso scartò di lato per poi balzarle addosso, per coglierla di sorpresa, ma lei fu rapida a spostarsi. Con il braccio sinistro lo cinse attorno al collo, bloccandogli la testa col corpo mentre rapidamente arretrava verso il portellone della jeep; sfruttando l'impeto della carica fece sbattere la bestia contro l'acciaio della grande macchina. Ci volle qualche momento prima che il babbuino, stordito, cadesse a terra sconfitto.  Ma la sua attenzione fu attratta da un'altra figura.


 - La prossima volta, chiedi per favore - sussurrò la donna all'orecchio dello sconfitto, mentre con delicatezza appoggiava un biscotto del signor Schöll sulle sue labbra; con calma si diresse verso l'ombra di un albero dove un vecchio babbuino stazionava con aria vacua: si sedette di fronte a lui e gli porse la scatola, da cui la scimmia prese un biscotto.
 - È forte, irruento, prepotente e stupido... mi ricorda qualcuno, per caso è uno dei tuoi figli? - disse la donna mentre il babbuino si mise in bocca il dolce - Come stai, Tre Zanne? Ti vedo in forma e a quanto pare hai fatto carriera - il babbuino sorrise, mostrando tre lunghi ed affilati canini, ed un quarto spezzato quasi alla radice.
 - Anche quel tuo figlio ora ne ha soltanto tre... prenderà il tuo posto, un giorno... lui come sta? C'è ancora? Se puoi, fagli sapere che sono tornata, in nome della nostra vecchia inimicizia -


Il babbuino prese un altro biscotto, prima che la donna si allontanasse richiamata ai fuoristrada dalle guide nere di rabbia per lo spettacolo proposto.

giovedì 5 novembre 2009

Canto Quinto

Quale strada era per me destinata?
Rispondere non saprei, che l’unica

corsa al mondo mortale era bloccata.
Ma del gatto la coda rivendica
la mia attenzione al nuovo ambiente,
che la fiamma del cero nemica

si pose all’ombre, vittoria mancante.
Mossi due passi e su scivolo liscio
caddi d’improvviso, che per levante
piegava in stretta curva; come fascio

che corre su ruscelli per giungere
alla legnaia, così parvi, straccio,

al fondo della scesa che tenere

dello stomaco il contenuto impresa
ardua rimase. Del corpo le sfere
riprese, con occhi sognanti, tesa

la mano per aiutare il compagno,

del nuovo antro visione fu presa:
alte colonne di fiamme, magno
splendore, sostenevano la volta

bruciante, ignei muri disegno

tortuoso all’arena, come folta

foresta, intrecciavano; di picchi,
massi e ceneri nere per sciolta

materia era formata, da fuochi

d’eterna durata, il territorio.
Come gran forno per d’argilla bricchi,
che mai spegnersi deve, desiderio
d’acqua induce al manovale costretto
alla sua bocca, così pressante rio
la corrente d’aria fece ratto
ricercare di questo inferno uscita.
Col custode tra le mie braccia stretto,
fiamme crepitare da fiorita
fessura d’uso era, per labirinto
ardente il cammino presi. Bandita
ogni memoria d’incendio, qual canto
di sirena d’affetto privo, pire
aggirando e corridoi, affranto,
seguendo per lunghi tratti, dire
non saprei quale breccia intrapresi
che colonna di penitenti l’ire
incrociai. Da grandi croci offesi
di acciaio rovente, che mai stempera
in questa fornace, su spalle pesi
opprimenti trascinano; libera
frusta schiocca su schiene nude,
dei pellegrini il passo alla lettera
comanda; degli aguzzini, per rude
violenza creati, le sembianze
non descrivo, che tali viste, crude,
al mio terrore abboccare di lenze,
come storione con alice s’inganna.
Volgendo gli occhi per cogliere assenze,
salvo fui dal loro nerbo, madonna
vidi, per poco non svenni, che fato
diverso credevo compiuto; zanna
di lupo e d’orso la mole fermato
giammai l’impeto della sua carica,
tale da sembrare dardo scagliato
al cuore del bersaglio, stoica
nel difendere dei clienti merci
e vita, dura maestra, pratica
d’ogni arma, occhi zaffiri, perderci
ancora notte volontà affiora.
Sorpresa colse lo spirito, torci
membra, volto sfigurato, d’allora
splendore ormai spento, senza parole
rimase al vedere forma logora
del suo fido scudiero: “Regole
infrangi? Leggi d’eterna fattura
rifiuti? Di così misera mole
è la croce che porti tra le mura
da non notarsi? No, vita circonda
la tua presenza e gioia matura
a vederti.” Nascosto tra la banda
dei dannati, tempo ebbi per parlare:
“Metà sei del percorso che discenda
alla foce del tutto; desiare
lumi coraggio dimostra, trappola,
temo, sarà fatta presto scattare.
Quante avventure, qual mera favola
abbiamo vissuto, le risa, ricordo,
dei tuoi canti buffi, mai parola
di scherno fu sì gradita, sguardo
attento rimembro nelle lezioni,

le notti…”. Come miele cola tardo
da alveo pieno, così brama visioni
d’allora porta e di salvare l’anima
sua a nuova vita, ma tali doni
dal guardiano non ottenni; prima

con basso miagolio, poi con morso
diniego diede. Svelato nella rima
della folla, da frusta colsi verso
sulla schiena; senza porre indugio
corsa feci del mio passo, che perso

ero se catturato. Con vantaggio
poco, dei demoni urti di filata
evasi, ratto per via torta, ligio,
di caverna attraversai l’entrata.

venerdì 23 ottobre 2009

Canto Quarto

Secondi passati immoti, di sogni
popolando con ninfe allegri giochi,
per breve sonno fui steso; ritegni
non ebbi a dormire su freddi solchi
che del luogo erano pavimento.
Ma sollievo ad orrori sì biechi
non v’è; svegliato con colpi cento
di zampa rovescio, tale la forza
da staccare teste, vidi distinto
del fido compagno le zanne. Scorza
dura la pelle, qual buccia di pesca
protegge l’interno, dolore smorza
per nulla, che la visione si offusca.
Ripresa del viandante la forma
migliore, sanato dai danni, losca
camera osservo e desiderio d’arma
volge al pensiero mio, che l’antro cupo
paure antiche richiama; rafferma
l’aria, sospiro non mette, lupo
sembiante il fumo ci avvolge tetro,
solo esso qui è presente, dirupo
profondo d’un nulla evitammo, che entro
la luce del cero l’orlo scorgemmo.
Seguendo del gatto il passo scaltro,
balzando tra crepe, gole passammo,
brecce tra rocce contando, fumose
forme e pennacchi di nebbia cogliemmo
soltanto; memore d’incendi, cose
di tempi ormai passati, l’acre odore
che respiro toglie e lacrime ombrose
fa versare all’animo mio, cuore
ancora non regge tali ricordi,

su tutto regnava. Quanto dolore
costa questo andare per corsi lordi
di fuliggine e braci ardenti? Quale
prezzo sto pagando? Quali balordi
motivi mi hanno spinto del male
traversare l’orribile distesa?
Sava, tua è la colpa e nulla sale
ad onore per quel che vidi; pesa
fardello quella spada, maledetta,
si spezzi come spezzò dell’attesa
la vita mia; mai scalare vetta
senza conoscerne i perigli angusti,
eppure a questa impresa, eri matta,
mi lanciasti; qual curiosa, vesti
spulciando, in bancarelle di mercanti
Nalimensi, del viaggio molesti
consiglieri, di sapere volenti,
foste tu e quell’incantatore vero
che a filosofare tendeva. Menti
fini tale cammino mai avrebbero
proposto! Comunque al danno compiuto
non v’è riparo, della stesa il mero
fumo tutto copriva, senza aiuto
alcuno procedemmo, ne i dannati
disturbare si poteva; di muto
lamento, i volti deformi privati
di vista, percorsi da pinnacoli
grigi che entro e fuori da stipati
corpi corrono, respiri refoli
solo permettono; qual infame
prodezza compirono, che da proli
perverse questa tortura di grame
sementi soffrono? Vedere l’ombra
d’uomo noto soffrire per lame
di fosca natura il dubbio tra membra
ghiacciate non solse. Nel vivere
nostro, della Terribile le labbra
veci per tempo fece, che collere
a Nalim non diedero danno alcuno;
ma, folle corsa, Alarico al potere
tese le mani, non trovando pruno
di frutti provvisto tra vecchie mura,
Karmisia ai propri servigi tribuno
si pose e mai a dolo fu posto cura.
Pensiero non s’ebbe per la sua sorte,
qual misero fato colse e perdura,
quando del cuore giunse la morte;
notare la sua figura tra queste
distese, stupore pose tra aperte
braccia, ma di colloquiare, triste,
non fu concesso tempo; del custode
il passo si fece cauto, viste
tra i fumi di guardiani le code.
Di esile corpo, le braccia possenti
in artigli, lo sguardo corrode
maligno del volere forza, denti
aguzzi come lame completano
il quadro; del pericolo tremanti,

tra due file ci muovemmo, d’un vano
la strada posero; non uno mosse
verso di noi, ne grido volse, strano,
quando alla porta giungemmo. Con rosse
tende a decorare l’entrata, l’antro
passammo guardinghi, nero trasse
che solo il lume di visione metro
fece. D’un tratto con sordo rumore
le ante si chiusero, di travi destro,
colsi coi lobi sinistro stridore.