Breve fu del pendio l’ascesa dolce, che mirare della cava scenario prese tempo e stupore; quale pulce che da schiena osserva di grimorio gli scritti arcani, così, con pupilla fissa, meraviglia appresi d’avorio, di perle e di quarzo l’arte più bella. Ma il cammino nostro per queste sale proseguire non era volto; molla scattante, il custode per portale d’alabastro e d’argenti rilucenti intraprese nuovo ire: ferale fu lo spettacolo di marcescenti paludi ricolme di pece, vasche di ceneri nere, d’incandescenti ferri per strazi, che memorie fosche di buie segrete grevi affiorano. Per quale opera di Lubas le ricche volte che questa gora anticipano furono costruite? Quale inganno viene intrapreso? Nessuna mano disturbare può il fato con senno, ne concessa scelta alle anime morte dagli dei. Eppure come sordo inno di chiacchiere scorre tra le porte, così tale splendore gloria acclama, dell’ultima battaglia piega sorte. Condotto ratto per stretta via grama tra le pozze ribollenti, macchine di sofferenza e di dolore trama, vidi a moltitudine mille, fine supplizio e rude violenza sortite, come del mattino le fredde brine, che a compassione per l’anime trite muove il cuore. Nell’ascoltare dei dannati strepiti e pervertite risa di demoni folli, urlare colsi d’umana voce del mio nome il suono; mi volsi per scovare la fonte di tale trambusto, come mi apparve ancora rimembro con orrore! Steso su tavolaccio lordo, some infernali trazione a percussore imprimono, aprire con pesante colpo mobili assi per guide more scivolano ad arti strappare, lente, dal corpo, di Jakal von Shar osservai lo strazio; con passo svelto l’aitante condottiero, con sforzo nullo, levai da quella tortura abominevole. | Non fu complesso, la macchina privai di moto; dei demoni benevole fuga fui causa io? Del mio compagno la fama fin qui era giunta? Per mole non atto allo scontro frontale, regno fece suo dell’infiltrare, sortire e sabotare; maestro di spada degno di nobili corti, fece perire molti tra i ribelli, per loro mano di questo inferno gramo prese l’ire. Sospiro trasse l’anima, malsano occhio a me volse e parole cariche di speranza sciolse: “Vivi vagano, ormai, per mondi non loro? Pudiche menti i cieli raggiungono in membra del piano terreno?” Parole parche usai per rispondere ai dubbi che ombra si posero al comprendere del fato lo strano corso: “Come faro libra luce a guidare navigli per lato di costa aspro, così la tua presenza risplende per queste gore; malato pensiero, follia ti guida, gonza voglia di sapere fin qui t’ha posto; per stima del patto che, con costanza, ci lega, odi d’un misero, pesto, lacero dannato verbo ed appello. Dei prossimi inferni, sapere mesto che poco m’allevia, questo fardello poco pesa, che a soffrire le carni sole: avanti dell’anima fallo, dei tuoi prossimi i dolori, perni a tortura volti si trasformano; della dissoluzione e di moderni piaceri la tomba proverai. Brano ancora manca al mio canto maligno, ma lume mi manca, Nuvak legano con benda nera, l’oscuro disegno non mostrano a chi cerca. Per l’anima mia l’Esarca preghi.” Altro, ritegno ebbi, non chiesi, goccia di stima discese per il Capitano, strada ripresi, tra ruote e lame, prima minaccia, passai indenne; presa spada, non so da quale fodero estratta, per affrontare demoni che rada l’accesso bloccarono fermi. Matta sapienza, che mai troverò? Preso non venni da braccia, coda trafitta in nera arcata mi lanciò disteso. |
RACCONTI SCRITTI IN PUNTA DI DITA, SCORRENDO COME IL PAESAGGIO A BORDO DI UN TRENO
domenica 10 gennaio 2010
Canto Sesto
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