domenica 10 gennaio 2010

Canto Sesto

Breve fu del pendio l’ascesa dolce,
che mirare della cava scenario

prese tempo e stupore; quale pulce
che da schiena osserva di grimorio
gli scritti arcani, così, con pupilla
fissa, meraviglia appresi d’avorio,
di perle e di quarzo l’arte più bella.
Ma il cammino nostro per queste sale
proseguire non era volto; molla
scattante, il custode per portale
d’alabastro e d’argenti rilucenti

intraprese nuovo ire: ferale

fu lo spettacolo di marcescenti

paludi ricolme di pece, vasche
di ceneri nere, d’incandescenti
ferri per strazi, che memorie fosche
di buie segrete grevi affiorano.
Per quale opera di Lubas le ricche
volte che questa gora anticipano

furono costruite? Quale inganno
viene intrapreso? Nessuna mano

disturbare può il fato con senno,
ne concessa scelta alle anime morte
dagli dei. Eppure come sordo inno
di chiacchiere scorre tra le porte,
così tale splendore gloria acclama,

dell’ultima battaglia piega sorte.
Condotto ratto per stretta via grama
tra le pozze ribollenti, macchine

di sofferenza e di dolore trama,

vidi a moltitudine mille, fine
supplizio e rude violenza sortite,

come del mattino le fredde brine,
che a compassione per l’anime trite
muove il cuore. Nell’ascoltare
dei dannati strepiti e pervertite
risa di demoni folli, urlare

colsi d’umana voce del mio nome
il suono; mi volsi per scovare
la fonte di tale trambusto, come
mi apparve ancora rimembro con orrore!
Steso su tavolaccio lordo, some
infernali trazione a percussore

imprimono, aprire con pesante
colpo mobili assi per guide more
scivolano ad arti strappare, lente,
dal corpo, di Jakal von Shar osservai
lo strazio; con passo svelto l’aitante
condottiero, con sforzo nullo, levai

da quella tortura abominevole.
Non fu complesso, la macchina privai
di moto; dei demoni benevole

fuga fui causa io? Del mio compagno

la fama fin qui era giunta? Per mole
non atto allo scontro frontale, regno

fece suo dell’infiltrare, sortire
e sabotare; maestro di spada degno
di nobili corti, fece perire
molti tra i ribelli, per loro mano
di questo inferno gramo prese l’ire.
Sospiro trasse l’anima, malsano
occhio a me volse e parole cariche
di speranza sciolse: “Vivi vagano,

ormai, per mondi non loro? Pudiche
menti i cieli raggiungono in membra
del piano terreno?” Parole parche
usai per rispondere ai dubbi che ombra

si posero al comprendere del fato

lo strano corso: “Come faro libra
luce a guidare navigli per lato
di costa aspro, così la tua presenza
risplende per queste gore; malato
pensiero, follia ti guida, gonza
voglia di sapere fin qui t’ha posto;
per stima del patto che, con costanza,
ci lega, odi d’un misero, pesto,
lacero dannato verbo ed appello.
Dei prossimi inferni, sapere mesto

che poco m’allevia, questo fardello
poco pesa, che a soffrire le carni
sole: avanti dell’anima fallo,
dei tuoi prossimi i dolori, perni

a tortura volti si trasformano;
della dissoluzione e di moderni
piaceri la tomba proverai. Brano
ancora manca al mio canto maligno,
ma lume mi manca, Nuvak legano

con benda nera, l’oscuro disegno

non mostrano a chi cerca. Per l’anima
mia l’Esarca preghi.” Altro, ritegno
ebbi, non chiesi, goccia di stima
discese per il Capitano, strada
ripresi, tra ruote e lame, prima
minaccia, passai indenne; presa spada,
non so da quale fodero estratta,
per affrontare demoni che rada

l’accesso bloccarono fermi. Matta
sapienza, che mai troverò? Preso
non venni da braccia, coda trafitta

in nera arcata mi lanciò disteso.

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