mercoledì 17 febbraio 2010

Memorie di un Tempo

Era stata una giornata lunga, calda, col sole alto e il cielo limpido senza nemmeno l'ombra di una nuvola a macchiare il suo azzurro intenso, avevano girato su una delle jeep in compagnia degli altri turisti, fotografando elefanti, giraffe, antilopi, un solitario leopardo in cima ad un baobab, godendosi il panorama offerto da quello scorcio di savana. Ora la luce cremisi del tramonto inondava l'erba alta e i radi alberi che si stagliavano lungo tutto l'orizzonte, mentre Francesca osservava il lento calare del disco rosso; stava sorseggiando un cuba libre annegato nel ghiaccio, appoggiata allo stipite della porta-finestra nel bar dell'albergo, gli occhi fissi sulla distesa verde infinita; per quel giorno non l'aveva visto, non aveva trovato un solo cenno della sua presenza, e nemmeno degli altri: aveva tempo, era soltanto al primo giorno, però aveva sperato in po' di fortuna, visto che la dea bendata l'aveva già assistita facendole incontrare Tre Zanne. Agitò il bicchiere per far muovere i cubetti di ghiaccio in un lento walzer tra i bordi di vetro.

Fame. Aveva fame. Erano giorni che non metteva in bocca qualcosa di buono ed energetico, aveva perso il conto delle notti passate con lo stomaco gorgogliante e stretto, quasi dolorante... e aveva sete, ma per fortuna c'era una fonte d'acqua non troppo lontano da lì, avrebbe soddisfatto la sua gola riarsa a breve, sempre che le energie per muoversi non l'avessero abbandonata all'improvviso; si sentiva debole, ogni passo era uno sforzo di volontà, una tortura per il suo corpo stremato. Quanti giorni erano passati dal suo rapimento? due, forse tre mesi, quando quei banditi assaltarono il loro convoglio e li portarono via; nulla di personale, nessuna guerra terroristica o religiosa, soltanto dei delinquenti che speravano di ottenere qualche migliaio di dollari, dopo i primi momenti di tensione si erano comportati con cortesia e non l'avevano mai maltrattata, chiacchierava con i suoi carcerieri, alcuni solo degli adolescenti armati di Kalashnikov, dell'Italia, dell'Europa e del suo lavoro: non si era ribellata, ne aveva mai tentato di fuggire, erano i modi migliori per meritarsi una raffica di pallottole nella schiena. Tre settimane dopo il suo rapimento, Chinedu corse da lei con gli occhi pieni di terrore, le diede in mano un machete, una piccola sacca di tela e la spinse fuori dal nascondiglio urlandole di scappare, di andare il più lontano possibile; gli spari inondavano l'aria e sovrastavano qualsiasi rumore la foresta potesse produrre: in seguito scoprì che la sua libertà era merito di uno scontro fra bande.

Aveva vagato per la foresta pluviale per giorni, sfruttando i pochi viveri trovati nella sacca, facendosi strada col machete e preservando un pacchetto di fiammiferi; ogni giorno cercava di orientarsi in quell'intrico selvaggio, ma non aveva idea di dove andare; dei tre corsi di sopravvivenza che aveva seguito con il suo ex si ricordava ben poco e in ogni istante cercava nella sua testa le nozioni per rimanere viva in quell'ambiente ostile. Aveva trovato frutta e mangiato funghi, era stata costretta a difendersi più di una volta, infine era giunta al limitare della foresta, ed era uscita, una notte, per percorrere la savana. Si era costruita una fionda, con due strisce di cotone della sua camicia, l'aveva usata per cacciare mancando spesso il bersaglio, lei che era contraria a qualsiasi forma di violenza sugli animali, si era costruita una rudimentale lancia, un palo di legno rozzamente appuntito a colpi di machete, in qualche modo era riuscita a prendere una specie di lepre... molti giorni fa, era riuscita a difendere la sua preda dagli avvoltoi, a cucinarne un po' al riparo, prima di dover abbandonare il resto agli sciacalli.

- A cosa stai pensando, Franci? - La voce di Luisa la scosse dai suoi ricordi. - Tutto bene? -
- Sì, tutto bene - disse Francesca - stavo solo ricordando. -
- È qui che ti hanno trovato anni fa, giusto? Immagino sia stato terribile per te, persa in questa vastità -
Francesca sorrise, e tornò ad ammirare l'ultimo spicchio di sole prima che scomparisse dietro l'orizzonte.

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