giovedì 17 gennaio 2008

Il Volo dei Calabroni

L’eco degli ultimi applausi si stava spegnendo nella grande sala. Ormai era giunta alla fine di quello spettacolo, un ultimo pezzo, un’ultima variazione sul tema, forse la più difficile di tutto il concerto, non solo per come avevano deciso di eseguirla, né per la difficoltà del pezzo originale, ma soprattutto per il poco tempo avuto per preparare la sonata. Il teatro era colmo, i biglietti erano andati esauriti due giorni prima, ma sicuramente qualcuno era riuscito ad entrare di straforo, dato che nella platea e sulle balconate vi erano delle persone in piedi, fin dall’inizio, appoggiate alle pareti o alle colonne che avevano seguito la sua esibizione per oltre un’ora e mezza; era la prima volta che un pubblico così numeroso seguiva i suoi virtuosismi con l’archetto, ascoltando con attenzione i suoi maltrattamenti ai pezzi più famosi per violoncello.
Una voce nel pieno silenzio della sala annunciava l’ultima variazione, “Il volo dei Calabroni”. Il suo sguardo si mosse verso il suo compagno in quella sera così strana. Quanto tempo era passato? 3, forse 4 mesi, dal primo contatto, dalla prima chiacchierata fatta su una chat, le prime parole scambiate per caso, l’immediata sensazione di essere di fronte ad una persona affascinante, simpatica, piacevole, i giorni e le ore passate a scriversi e l’idea di questo concerto che piano piano si evolveva tra le parole scambiate; la scelta dei pezzi, il come variarli, i ritmi, l’ordine, il primo incontro per fare un punto, per riepilogare, per raccontarsi un po’, per provare gli spartiti che si era portato dietro in quel fine settimana, quanto tempo era passato, un mese, un mese e mezzo di prove, ore e ore passando assolate domeniche a suonare e chiacchierare, preparando un concerto immaginario che mai avrebbe pensato di portare al pubblico. Poi l’annuncio, tre settimane fa, al telefono:
- Suoniamo - le disse, nella sua voce c’era qualcosa di diverso dal solito.
- Beh, sì, domenica pomeriggio, dopo mangiato. –
- No, non hai capito, suoniamo, io e te. Abbiamo un concerto in cartellone all’Auditorium. –
- Non mi stai prendendo in giro? –
- No, è tutto vero. Non è grandioso? –
L’Auditorium era una delle più grandi sale per la musica classica in città, c’era stata diverse volte, sia da spettatrice che da musicista, per quanto il suo nome si perdeva nelle varie grandi orchestre in cui aveva prestato la sua arte; ottenere una serata in quel teatro era difficilissimo, le sembrava impossibile che due sconosciuti come loro potessero usufruire di un palcoscenico tanto rinomato.
- Dai, Stefan, smettila di scherzare. –
- Guarda che sono serio. È tutto vero, ho qui la lettera del direttore. Cos’è, pensavi che non avremmo mai suonato le nostre variazioni? –
. Ma non glielo disse. Nei giorni successivi alla telefonata la sensazione che fosse tutto un enorme scherzo le rimase a lungo, nonostante Stefan le fece vedere la lettera con la convocazione per dare vita a “Variazioni”, una serata sola, un’occasione unica, nonostante cominciarono a provare tutte le sere e per ben due volte occuparono il palco della grande sala inondandolo con le loro note; le domande si affollavano nella sua mente, come aveva fatto quell’ometto (basso, un po’ tracagnotto, dai capelli biondicci e gli occhi verdi, per nulla bello ma dal sorriso contagioso) ad ottenere un simile privilegio, aveva convinto qualcuno della direzione artistica, aveva degli amici, dei conoscenti, aveva corrotto qualcuno? Non lo sapeva e il suo compagno era stato piuttosto evasivo.
Il silenzio calato nel salone era quasi opprimente. L’attacco spettava a Stefan, un primo, breve volo, da una foglia ad un’altra, lei seguiva sullo stesso percorso qualche istante dopo che lui si fosse posato sulla nuova meta, ripartendo appena dopo essere stato raggiunto; due, tre brevi salti prima di partire assieme per un lungo, lunghissimo volo in costante accelerazione, con brevi impennate ora di uno, ora dell’altro, piccole sfide di bravura in un crescendo di note sparate ad un ritmo sempre più alto: sarebbe dovuto andare così, il piano era quello.
Ma Stefan non si era attenuto al piano, e dopo i primi salti eseguiti con un tempismo perfetto, scattò in anticipo, proprio quando il volo da solitario diveniva di coppia: sorpresa, trattenne un urlaccio, non era in prova, c’erano centinaia di persone ad osservarli e doveva decidere in un attimo cosa fare; partì in ritardo di un paio di secondi rispetto all’ormai inutile spartito che aveva di fronte, doveva raggiungerlo a tutti i costi cercando di non dare alcun segno di quello che era successo al pubblico. Pazzo, stupido incosciente, ma cosa gli aveva preso? Perché era partito in anticipo, aveva sbagliato a contare il tempo della pausa, aveva segnato male sullo spartito la battuta d’inizio, o si era semplicemente fatto prendere dall’entusiasmo? Rischiava di rovinare tutto con la sua irruenza e di trasformare quel bellissimo concerto in un disastro, per entrambi; non era ambiziosa, ma la possibilità di questo concerto, per lei, era fin troppo ghiotta, un’occasione unica per farsi conoscere e in quelle tre settimane aveva pensato spesso a come la sua carriera di concertista sarebbe potuta cambiare: per questo non si era tirata indietro, amava suonare, amava poterlo fare in compagnia, soprattutto se la compagnia era così simpatica e affabile, e poterci ricavare qualcosa di più che una bella esperienza non le sembrava affatto malvagio, e quello stupido poteva rovinare tutto con questo colpo di testa. Le note si rincorrevano per l’ampia platea che ospitava il pubblico in religioso silenzio, non aveva mai affrontato “Il Volo del Calabrone” a quella velocità, il respiro si stava facendo corto, affrettato e delle gocce di sudore le scendevano sulla schiena tesa nello sforzo di raggiungere il suo compagno che continuava a procedere nel suo percorso come se non fosse successo nulla, come se fosse tutto regolare; un orecchio impegnato a determinare dove si trovava Stefan nel tragitto, stava suonando senza seguire lo spartito, d’istinto, l’archetto volava sulle corde tese spinto in un turbine di movimenti, le dita sulla tastiera si muovevano come forsennati ballerini di una discoteca techno, senza accorgersene lo raggiunse e lo superò, ormai completamente coinvolta dal ritmo frenetico, incapace di rallentare, di frenare le note che correvano sempre più veloci. Ora era lei in fuga e il suo compagno fu costretto a correrle dietro, a darle la caccia con una cascata di note lanciate ad una velocità che sembrava inarrivabile. La musica correva in un turbine di suoni, la melodia quasi irriconoscibile, l’ometto in breve coprì il distacco preso e per qualche istante i due violoncellisti fusero le loro note in un’unica rapidissima esecuzione.
- STOOOOOOOOOOOOOOOOOOOP! – Stefan urlò d’improvviso.
La musica s’interruppe, un po’ perché quell’urlo profondo, quel comando così imperioso spezzò il flusso delle note, un po’ perché ormai il ritmo era insostenibile ed entrambi avevano la necessità di fermarsi per riprendersi dallo sforzo compiuto. Pazzo, completamente pazzo, pensò irata.
- Acqua? – le chiese, con un sorriso smagliante. Nonostante traboccasse di rabbia, nonostante volesse urlargli dietro per tutto il guaio che gli stava combinando, si limitò ad annuire leggermente con la testa, gli occhi carichi di risentimento; il pubblico era alquanto perplesso, stava vivendo una situazione particolarissima, ma nessuno osò interrompere il silenzio, nemmeno con un applauso.
Stefan versò acqua fino all’orlo in un bicchiere poggiato sul tavolino che li divideva, poggiò la bottiglia sul tavolino, lo ringraziò di cortesia e fece per prendere il bicchiere, ma il suo compagno, con nonchalance prese il bicchiere colmo e lo bevve avidamente sotto il suo sguardo impietrito; fu più la sua faccia, l’espressione sorpresa che le si dipinse in volto che il gesto di Stefan a far esplodere una roboante risata nella platea, seguita da un lungo applauso quando gli occhi del suo compagno si posarono sulla sua faccia spazientita, diventando d’improvviso tutto rosso in un’espressione di vergogna e imbarazzo. Posò in fretta il bicchiere vuoto e lo riempì di nuovo fin quasi all’orlo.
- No. Voglio un altro bicchiere. – Disse con voce ferma, dura come la pietra. Stefan prese un secondo bicchiere e lo riempì; appoggiò l’archetto sul tavolino e prese il suo bicchiere, lo bevve piano, con calma cercando di dissipare la tensione dei suoi nervi. I suoi occhi traboccavano d’ira, avrebbe voluto tirarglielo dietro quel bicchiere, prenderla in giro così, di fronte a tutta questa gente, fare il pagliaccio per il pubblico non era serio, sarebbe sì stato un concerto memorabile ma di certo non per le magistrali esecuzioni fin lì svolte. Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro mentre gli ultimi sorsi d’acqua scorsero giù nella gola.
- Riprendiamo? – le chiese gentilmente, una volta appoggiato il bicchiere sul tavolino. Annuì con un gesto calmo e si volse verso il tavolino allungando la mano verso l’archetto. Che non trovò. Si guardò intorno, cercando affannosamente intorno a sé, dietro la sedia, sul leggio, sotto il tavolino, nulla, non era più lì, no, impossibile, doveva essere lì intorno, non poteva essersi smaterializzato.
- Qualcosa non va? –

- Il mio archetto, non lo trovo – Rispose, mentre posava uno sguardo quasi disperato su di lui. Tra il pubblico qualcuno stava soffocando una risata; dalla giacca di Stefan c’era qualcosa di strano che spuntava fuori, qualcosa di malamente nascosto, qualcosa che assomigliava molto al suo archetto.
- Il mio archetto. – La sua voce si era fatta gelida, il suo volto una maschera di rabbia, l’ometto le restituì l’archetto abbassando lo sguardo, se avesse potuto l’avrebbe incendiato solo con lo sguardo che si era fatto carico d’odio, il pubblico esplose ancora in una fragorosa risata ed un lungo applauso.
Le note ripresero a scorrere per la platea e le balconate all’unisono, in un lungo volo eseguito con una maestria senza pari, la tensione, la rabbia, piano piano si spensero mentre il pezzo veniva portato alla sua conclusione, sull’ultima nota l’applauso si trasformò in un vero tributo, il pubblico in piedi batteva le mani senza sosta, 2, 3, 5 minuti di soli applausi. Un trionfo.



Pochi giorni dopo Agnese venne contattata da un impresario che le propose un lungo tour, qualche mese in giro con una piccola orchestra per i più grandi teatri d’Europa, un compenso da capogiro e la libera scelta su cosa suonare, almeno per quanto riguardava il suo spazio all’interno dei concerti. Non aveva più parlato con Stefan, dopo il concerto non lo aveva più cercato, e nelle rare volte che lo trovava on-line era sempre troppo indaffarata per dargli retta. Ripensandoci era stato un bel concerto, il direttore dell’Auditorium aveva fatto loro dei sinceri complimenti e aveva chiesto se era possibile ripetere la performance. Quel concerto rimase unico.

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